Viaggio nell’Albania stretta tra un passato che fatica a passare del tutto e un futuro che tarda ad arrivare. Un paese vicino ma sconosciuto, aspro ma con sprazzi di inaspettata dolcezza – Con Radio Popolare e ViaggieMiraggi

Capitolo 2: Il mare

Giovedì 22 agosto 2019

Fatta colazione, partiamo in direzione del mare sul pullmino guidato dal buon Reshat, che ha un italiano molto “basic” ma è simpatico, potrebbe darci delle soddisfazioni. La prima tappa sarà Durazzo.
All’inizio della strada per Durazzo c’è una rotonda, quella della nuova scultura “Cosmic S”. Questa zona ha un nome curioso, ed è in qualche modo un luogo simbolico. Antonio Caiazza nel suo libro “In alto mare” lo spiega così:
Zogu i zi, «l’uccello nero», è l’inusuale nome di una zona nell’immediata periferia ovest della città, lungo la strada che conduce a Durazzo. All’epoca del fascismo c’erano un piccolo campo d’aviazione, qualche caserma italiana e soprattutto un ben avviato bordello. Di qui il licenzioso nomignolo che forse ammiccava alla matrice ideologica dei suoi frequentatori.
Gli albanesi chiamano “autostrada” l’arteria che collega la capitale alla città portuale, ma è solo una superstrada, due corsie in un senso e due nell’altro, divise da blocchi di cemento. Nei weekend, e soprattutto d’estate, si intasa fino a bloccarsi. E il punto più critico è lì dove la via per Durazzo interseca quella che sale da sud, a Zogu i zi.
Il sindaco Rama aveva deciso di realizzare una sopraelevata per evitare che i due flussi di traffico si incrociassero. I lavori erano arrivati a buon punto, quando il capo del governo Berisha bloccò l’opera definendola inutile e dispendiosa. Ancora qualche settimana e arrivarono le ruspe a buttare giù il viadotto che già scavalcava la strada per Durazzo.
Oggi Zogu i zi è la metafora della prepotenza del premier, dell’ottusità del potere e di una lotta politica che ruba il tempo all’Albania.
Al posto del ponte Berisha ha fatto costruire una grande rotatoria, certamente meno efficace della sopraelevata. Per l’intera zona il premier ha anche deciso un nuovo nome: Relindija, «Rinascita», come la testata del suo partito. Ma è improbabile che riuscirà a scalzare l’antico «uccello nero».
La storia della sopraelevata alla periferia della città è ormai l’archetipo di un modo di fare, Zogu i zi è entrato nel linguaggio comune come sinonimo di arroganza.”
Questo accadeva dieci anni fa. Oggi Sali Berisha non è più premier, soppiantato proprio da Edi Rama. Il Partito Socialista di Rama (centrosinistra) e il Partito Democratico di Berisha (centrodestra) si sono alternati al governo per tutti gli anni del postcomunismo, ma il livello di corruzione è endemico e, a detta di molti, in questo i due partiti non si differenziano più di tanto.

Durazzo, oltre ad essere una città portuale, è tradizionalmente la “spiaggia” di Tirana. Pur essendo la distanza di soli 35 chilometri, molti tiranesi negli anni immediatamente successivi alla caduta del regime si sono costruiti una seconda casa qui, per passarci l’estate o solo i weekend, e quindi il litorale è pesantemente cementificato. Molte case, poi, non sono finite: è stato costruito solo un piano, e dal soffitto spuntano i ferri già pronti per tirar su il secondo, o a volte sono solo scheletri di case.
Ciò nonostante Durazzo, oggi seconda città albanese con 290.000 abitanti, può vantare anche un suo patrimonio storico-archeologico, e del resto è tra le città più antiche d’Albania, essendo stata fondata dai coloni greci con il nome di Epidamno nel 627 a.C., per poi diventare Dyrrachium per i romani. Fu successivamente un importante insediamento bizantino, bulgaro, veneziano e ottomano.
Fu un archeologo locale negli anni ’60 del XX secolo a scoprire, sotto una collina urbanizzata e abitata, un anfiteatro romano, costruito sotto l’imperatore Traiano nel II secolo d.C.. Incuriosito dal fatto che solo in questa zona non mancava mai l’acqua nei pozzi, mentre il resto della città soffriva periodicamente di carenza d’acqua, immaginò che ci potessero essere delle gallerie sotterranee attraverso le quali l’acqua poteva scorrere. Si fece calare in un pozzo legato con una corda, e finì proprio in una delle gallerie dell’anfiteatro. Allora iniziarono gli scavi: era abbastanza facile, perché se il partito decideva che le persone dovevano lasciare le loro case non si poteva discutere, si faceva e basta; i comunisti tenevano molto all’archeologia, che serviva alla retorica di regime per dimostrare che il popolo albanese aveva radici profonde e gloriose. Nessuno però veniva gettato in mezzo alla strada, per tutti veniva trovata una sistemazione più o meno dignitosa. Tuttavia, solo un terzo dell’anfiteatro è stato finora portato alla luce. Con l’arrivo della democrazia i lavori di scavo persero di importanza, c’erano altri problemi più urgenti e tutto rimase in sospeso.
Si calcola che l’anfiteatro potesse ospitare fino a 20.000 persone, ed è quindi il più grande dei Balcani. Era di forma ellittica e arrivava fino al mare, nella zona dove allora c’era il porto. Lo scopo principale era di intrattenere il popolo, come per tutti gli altri anfiteatri: panem et circenses. Fu utilizzato fino al IV secolo d.C.: intorno al 350 vi fu un forte terremoto, che interessò diverse zone dell’Adriatico e danneggiò gravemente molte strutture. Si pensa che anche in seguito a questo evento, con il tramonto della civiltà romana, il sito cadde in disuso, data anche la difficoltà di adibire ad altri usi una struttura così grande. Gradualmente, con il passare del tempo, diverse parti dell’anfiteatro furono coperte. Una parte fu riutilizzata per scopi religiosi e quindi si trasformò da luogo pagano a luogo cristiano: fu costruita una chiesa paleocristiana nel V-VI secolo, di cui ora restano solo dei ruderi, tra i quali dei resti di mosaici che raffigurano Santa Sofia con gli angeli. Nel XVI secolo l’anfiteatro fu ricoperto dal terreno dopo l’invasione ottomana, e vi furono costruite sopra diverse case che ancora oggi minacciano la conservazione del sito. Anche gli scavi degli anni ’60 provocarono un forte deterioramento della struttura, dato che non ci furono provvedimenti per la sua conservazione.
Dal 2004 l’anfiteatro fa parte di un progetto di valorizzazione del centro storico della città attraverso la creazione del Parco Archeologico Urbano di Durazzo, in cui sono coinvolti l’università di Parma, il Ministero degli Affari Esteri, la municipalità di Durazzo e il Ministero della Cultura albanese.

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L’anfiteatro

A Durazzo si trova anche una torre veneziana del XV secolo ben conservata, nonché alcuni “landmark” legati ad eventi più recenti che coinvolgono personaggi italiani, per la verità di quelli di cui non ci possiamo vantare: abbiamo ad esempio l’università dove Renzo Bossi, più noto come “il trota”, prese la sua famosa laurea in Albania, peraltro senza mai metterci piede. È una delle tante università private che sono sorte come i funghi nel periodo delle frenetiche “liberalizzazioni” postcomuniste. Negli ultimi anni, ci racconta Nida, c’è stata fortunatamente una stretta notevole e molte hanno chiuso, anche perché i loro fondatori, sedicenti liberi imprenditori e portatori di cultura, sono finiti in prigione per affari loschi di vario tipo.
Rimanendo sullo stesso genere, nella zona del porto si può vedere la “gintoneria” di Stefania Nobile, la figlia di Wanna Marchi. Eh sì, madre e figlia, scontato il carcere in Italia, si sono recentemente trasferite qui, lamentando che in Italia incredibilmente non riuscivano più a “lavorare”. Qui in Albania invece si sono buttate nel ramo ristorazione-intrattenimento e hanno aperto tre locali, tra cui appunto la gintoneria di Durazzo che (lo dice la parola stessa) propone un vasto assortimento di gin, da gustare preferibilmente sotto forma di Gin Tonic, un classico dei classici dei cocktail; o perché no di Gin Lemon o Gin Fizz. Noi però preferiamo passare oltre, non solo perché è mezzogiorno e magari non è comunque il caso, a maggior ragione con questo caldo, ma anche perché il locale ovviamente non è esattamente il nostro genere.
Nessuno sa niente invece, nemmeno in Albania, del Maestro Do Nascimento, che ha fatto perdere le sue tracce da parecchi anni, purtroppo. Forse anche lui ha aperto dei locali in Brasile con i soldi frutto del duro “lavoro” che ha fatto in Italia, non sappiamo.

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La torre veneziana

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Noi dobbiamo lasciare Durazzo per dirigerci verso la prossima tappa di questa giornata, il monastero ortodosso di Ardenica, situato su una collina che sovrasta la località di Kolonjë.
Prima di visitare il monastero, ci fermiamo a pranzare all’Estados Cafè, che si trova nei pressi. Il posto è piacevole, su una bella terrazza panoramica.
Mangiamo verdure alla griglia, un formaggio fresco simile alla feta greca e quelle che qui vengono chiamate “polpette” (qofte in albanese, che si pronuncia ciofte, con la o chiusa). Si tratta di una parola di chiara origine turca che però identifica in realtà tutto quello che è carne macinata, di qualunque forma; quindi non solo le polpette tonde alle quali siamo portati a pensare, ma anche, come in questo caso, delle “polpette” di forma sottile e allungata, più simili a salsicce. Per darvi un’idea, qualcosa di simile a quelli che in tutta la ex Jugoslavia vengono chiamati ćevapčići.
Stiamo imparando, con grande difficoltà, qualche parola in albanese. Con grande difficoltà perché è una lingua indoeuropea che però non appartiene a nessuno dei gruppi principali: non è una lingua slava, non è neolatina, non è germanica. Fa storia a sé, insomma, anche se ha dentro qualche parola slava, qualche parola turca come questa, e forse perfino qualche parola italiana: Nida, per dirne una, ripete spesso “bravo” anche quando parla in albanese, per esempio con Reshat. La pronuncia è particolare, e non è neanche una lingua di facile lettura, perché parecchie lettere e coppie di lettere si pronunciano in maniera per noi non intuitiva. Altra difficoltà non da poco è che i nomi si declinano. E poi non sempre la gestualità aiuta: gli albanesi per dire sì scuotono leggermente la testa, cosa che noi tendiamo a interpretare come un no; invece per dire no portano la testa un po’ all’insù, gesto che se ripetuto potrebbe sembrare un sì.
È anche curioso sentire, all’orecchio italiano, dire sì e no, perché “sì” si dice “po” e “no” si dice “jo”, per cui se sentite dire “po po” significa “sì sì”, mentre “jo jo” significa “no no”. Non è facile neanche dire grazie: Faleminderit. Comunque io ed Elena ci siamo dati un obiettivo minimo: prima della fine del viaggio dobbiamo almeno riuscire a pronunciare decentemente Shqipëria. Chissà se ce la faremo…
Il monastero di Ardenica fu costruito dall’imperatore bizantino Andronico II Paleologo nel 1282, dopo la vittoria contro gli Angioini nell’Assedio di Berat, e si trova a circa 1 km dalla Via Egnatia, un’importante strada romana del II secolo. La cappella della Santa Trinità era già stata eretta alcuni secoli prima su un tempio pagano, dedicato alla dea Artemide; si pensa che il nome di Ardenica derivi proprio da Artemide. Il monastero è famoso come il luogo in cui, nel 1451, è stato celebrato il matrimonio di Skanderbeg con Andronika Arianiti. Aveva una importante biblioteca con 32.000 volumi che è andata completamente bruciata in un incendio nel 1932. La Chiesa di Santa Maria all’interno del monastero contiene affreschi dei fratelli Kostandin e Athanas Zografi, che comprendono scene del Vecchio Testamento e del Nuovo Testamento, dogmatica, liturgia e vita dei santi. L’iconostasi in legno policromo e dorato è del 1744.
Dal 1780, il monastero ospita una scuola greca per preparare i chierici al culto.
Nel 1969 su ordine del regime comunista il monastero fu chiuso al pubblico e venne utilizzato per le funzioni di segreteria del Partito. Gli edifici e i dintorni sono stati lasciati in stato di degrado per molti anni, fino al 1988, quando un parziale restauro è avvenuto per scopi turistici.
La Chiesa autocefala ortodossa di Albania riprese possesso del monastero nel 1992, dopo la caduta del regime comunista.

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Si riparte in direzione sud, ci aspettano ancora un paio d’ore di viaggio per raggiungere la nostra destinazione. Per ingannare il tempo, mettiamo un po’ di musica: abbiamo scoperto che Nida nel tempo libero canta in un ensemble di musica iso-polifonica albanese. Si tratta di un genere musicale tipico di questa terra, e in particolare proprio del sud dell’Albania, di cui lei è originaria (lei vive a Tirana, ma la sua famiglia viene da Tepelena, nel sud). È una forma di canto di gruppo a cappella, praticata sia da uomini che da donne, caratterizzata da brani composti principalmente da due parti solistiche: una parte compone la melodia e l’altra esegue un controcanto con un “iso” (una sorta di ronzio) corale. L’Iso-polifonia albanese è entrata nella lista dei Capolavori del Patrimonio Orale e Intangibile dell’Umanità il 25 novembre del 2005, unendosi così alle altre ricchezze della cultura albanese già protette dall’UNESCO come il Parco Nazionale di Butrint, la città di Gjirokastër e quella di Berat.
Per saperne di più:

Iso-polifonia albanese

Per la maggior parte, sono canti patriottici o “lamenti” funebri eseguiti ai funerali, che raccontano la vita del defunto, quindi potete immaginare che sono sicuramente affascinanti ed evocativi ma non proprio di quel genere che mette allegria, diciamo così. Un piccolo esempio:

Iso-polifonia – Video

Nel frattempo, vediamo scorrere dai finestrini il paesaggio della laguna di Narta con le sue saline, che si incontra subito prima di attraversare la città di Valona. Di fronte la piccola isola collegata con un ponte al villaggio di Zvernec e l’altra isola, disabitata, di Sazan. Da queste parti sbarcò Cesare nel 48 a.C. (Guerra Civile Romana), nei dintorni dell’antica città di Orico, per inseguire Pompeo che si era rifugiato in Macedonia. I due eserciti si incontrarono sulle due sponde del fiume Apso, fra Apollonia e Durazzo.
Dopo un paio di pezzi il lettore cd si incanta e smette di funzionare, anche se si sospetta un guasto “diplomatico”… Reshat ne approfitta e, forse per svegliare il gruppo un po’… addormentato dalla musica isopolifonica, prende il controllo della “consolle”, si trasforma in DJ e mette a tutto volume musica albanese dal sapore molto balcanico ma anche tamarra il giusto, musica sulla quale si esibisce anche accennando scatenati passi di danza al volante. Per accentuare l’effetto, fa andare le luci interne (rosse) del pullmino a intermittenza… insomma, ci dà un assaggio di quello che scopriremo essere il suo repertorio. È la prima occasione per noi di ascoltare quello che diventerà poi un vero e proprio inno di questo viaggio, cioè Ku ka si Tirona (che si traduce, più o meno, con “Dove trovi qualcosa come Tirana”, tenendo conto che Tirona pare sia la tipica pronuncia dialettale locale). A questo punto, non posso che favorire il video ufficiale:

Ku ka si Tirona – Official Video

Oltrepassata Valona, salendo verso il passo di Llogara, a 1060 m, siamo già ufficialmente sul mar Ionio, e infatti davanti a noi ci sono le isole Ionie, prima tra tutte la grande Corfù, che possiamo ammirare da una terrazza panoramica, anche se purtroppo un po’ di foschia ci impedisce di vederle nitidamente.

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Scendendo per una strada tortuosa, raggiungiamo finalmente Himarë, un piccolo paese costiero che in estate vede la propria popolazione raddoppiare per via dell’afflusso di turisti. È stato fondato dai greci almeno 2000 anni fa, se si pensa che è citato già da Plinio il Vecchio. Il suo nome deriva da chimera, che nella mitologia greca stava ad indicare un mostro leggendario formato da parti del corpo di animali diversi.
Già dalle prime case sparse, si può vedere quella che qui è un’abitudine tradizionale, cioè quella di appendere all’esterno delle case animaletti di pezza o di pelouche, soprattutto orsacchiotti, con la funzione di attrarre il malocchio e impedire quindi che entri in casa.
Arriviamo al nostro albergo, il Rondos Hotel, giusto in tempo per buttarci in un mare invitante e fare un primo bagno al tramonto, esattamente come prevedeva il nostro programma. La spiaggia è comodissima, basta attraversare la strada.

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Dopo di che, ci aspetta una bella cenetta in hotel a base di pesce: dopo un’insalata “greca” con il formaggio locale simile alla feta, abbiamo un’orata e cozze a volontà. Per accompagnare, anche una crema a base di yogurt molto simile a un altro classico greco, lo tzatziki fatto con yogurt, cetrioli e aglio. A tavola mi trovo vicino a Giampiero, che all’interno del gruppo è uno di quelli che segue con più interesse la politica, anche se essendo un gruppo di Radio Popolare siamo tutti mediamente “politicizzati”. E così passiamo buona parte della cena a parlare di politica italiana. Voi direte: certo, sono i giorni in cui si discute della formazione del governo “giallorosso”; ogni giorno c’è un’ipotesi diversa: si fa, poi no, non si fa, sarà Conte ma sarà un Conte bis, no, Conte no, non si può, oppure sì ma deve essere un Conte 2, non un Conte bis… e poi bisogna porre delle condizioni sui nomi, sui programmi… quello che ieri sembrava irrinunciabile oggi è già superato, e così via… e invece no. Noi discutiamo di politica, sì, ma politica… degli anni ’70. Be’, ragazzi, altro livello. Io ero bambino all’epoca, ma ho qualche vago ricordo e qualche lettura. Giampiero, che era… un po’ meno bambino, ha un sacco di aneddoti gustosissimi. Certo, poi ci tocca seguire anche l’oggi, ma lasciamo perdere, non ne parlerò qui, non è il posto per farlo.
Dopo cena, con chi ne ha voglia usciamo in cerca di un raki: il raki è la grappa tradizionale albanese, parente prossima di quella che si trova negli altri paesi balcanici: si chiama raki anche in Grecia, rakija nella ex Jugoslavia, rakija anche in Bulgaria ma con l’accento sulla i… in Albania, a differenza di altri paesi, è quasi sempre di vinaccia, raramente di frutta. Ma a parte questo, poco cambia.
Sembra semplice ma in realtà, anche se con noi ci sono Nida e Reshat che conoscono bene Himarë, finiamo in un posto che non è quello giusto, per cui ci troviamo seduti sulla spiaggia a bere mojito o gin tonic… ma poco importa, per finire la serata va bene anche quello. Per il raki ci riproveremo domani.

Venerdì 23 agosto 2019

Oggi la giornata inizia salendo a piedi verso il quartiere di Himarë chiamato Castello, dove troviamo una bella chiesetta e un paio di punti panoramici da cui Corfù si vede decisamente meglio di ieri.
Poi Reshat ci porta a Porto Palermo, dove appena sopra una bellissima baia sorge il castello di Alì Pasha Tepelena.
Alì Pasha Tepelena, il leone di Giannina, il Napoleone dei Balcani, è un grande personaggio storico di questo territorio. Nacque a Tepelena, luogo di origine anche della nostra Nida, nel 1740 da una ricca famiglia locale. Fin da giovane si fece notare per le sue capacità intellettuali e per la sua sete di potere. Nel 1768 sposò Emina, la figlia di Capelan Pascià di Delvina. Fu a questo punto che entrò nel numero dei piccoli capi-guerra al servizio dei locali potentati dell’Impero ottomano e che, presumibilmente, approcciò la fratellanza sufi dei Bektashi, cui sarebbe rimasto fortemente legato per tutta la vita.
Nel 1784, ottenne dal sultano Abdul Hamid I il titolo di Pascià ed occupò Delvina, dopo di che ottenne anche la nomina a comandante militare della roccaforte di Giannina. Il dominio su Giannina gli venne subito revocato ma Ali rifiutò di abbandonare la città e ne venne cacciato con la forza da Kurt Ahmed Pascià. Continuò la sua scalata al potere ottenendo la nomina a Pascià del Sangiaccato di Trikala nel 1786.
Il 1787 fu l’anno della svolta, per Tepelena. Si distinse per alcune operazioni militari nel Banato durante la Guerra austro-turca (1787-1791) e la contestuale morte di Kurt Ahmed Pascià gli diede la possibilità di rioccupare con la forza Giannina e fece di lui il miglior candidato quale nuovo Dervenci-paşa (“guardiano delle vie”). Entro il 1788, la “Sublime Porta” (cioè il sultano) aveva formalizzato la nomina di Alì a Pascià di Giannina e Dervenci-paşa, titoli ottenuti grazie anche all’appoggio della locale borghesia commerciale.
Negli anni tra il 1798 e il 1812, assoggettando i sangiaccati rivali confinanti e approfittando della difficile situazione dell’Impero ottomano negli anni delle guerre contro Napoleone, Alì Pasha riuscì a espandere il suo territorio e a consolidare il suo dominio, facendo diventare il sangiaccato di Giannina un importante fattore sulla scena internazionale.
Tra il 1812 e il 1817 tentò di fare un accordo con tutti i feudatari albanesi contro la politica centralizzata della Sublime Porta. Molto rapidamente trasformò i territori sotto il suo dominio in una sorta di stato autonomo, che si distingueva dalle altre regioni dell’Impero per ordine, pace, sviluppo economico e culturale. Poté beneficiare dei contributi come governatore indipendente e creò relazioni diplomatiche con Inghilterra, Francia e Russia.
Le testimonianze degli occidentali che la visitarono, in linea con il diffuso orientalismo dell’epoca, ci lasciano un’immagine incredibilmente “esotica” della corte di Ali Pasha, sempre descritta come un luogo di opulenza e meraviglie. Su tutte, spiccano le descrizioni relative all’harem del despota: si parla di seicento concubine e un non ben precisato numero di ragazzi.
Lord Byron fece visita ad Alì Pasha nel 1809 a Giannina e scrisse le sue memorie dell’incontro nell’opera Childe Harold’s Pilgrimage, mostrando sentimenti contrastanti nei confronti del tiranno: da un lato l’ammirazione per lo splendore della corte e per l’aver incoraggiato il risveglio della cultura albanese a Giannina, dall’altro il biasimo per la sua crudeltà.
L’atteggiamento tenuto da Tepelena nei confronti della religione può essere definito come “moderno”. Nato in una famiglia musulmana, non esitò ad allearsi con non-musulmani e musulmani eterodossi pur di raggiungere i suoi scopi. Cristiana era la Favorita di Tepeleni, Kyra Vassiliki, una ragazza greca da lui sposata nel 1808 alla quale non venne chiesto di abiurare la sua fede e per la quale una stanza del Castello di Giannina venne tramutata in una chiesa.
Tepelena commise l’errore di organizzare un attentato ai danni di un suo rivale rifugiatosi a Costantinopoli, Ismaël Pasha, e l’insuccesso dell’operazione provocò la rottura definitiva con gli ottomani. Il sultano Mahmud II pretese le dimissioni di Tepelena e, al suo rifiuto, organizzò la spedizione punitiva contro il ribelle. Alì era convinto di poter vanificare l’assalto ottomano grazie al suo agguerrito esercito ed all’impervia natura del terreno di scontro, ma sfortunatamente per lui la totale mancanza d’impegno da parte dei suoi ufficiali vanificò qualsiasi scelta strategica.
A settembre del 1820, l’armata ottomana si schierava intorno a Giannina, cominciando l’assedio, che con fasi alterne durò più di un anno. Nel gennaio del 1822, Hursid Pasha aveva occupato la maggior parte delle fortificazioni di Giannina. Ali Pasha, asserragliato nel suo palazzo tramutato in una cittadella, accettò di aprire i negoziati. Le parti s’incontrarono nel Monastero di San Pantaleone, su un’isola del Lago Pamvotida, già in mano turca. Attirato dalla promessa di un perdono completo, Ali Pasha si vide circondato dai turchi che gl’intimarono d’inginocchiarsi per essere decapitato. A questo punto, secondo Alexandre Dumas, un altro che scrisse di lui, avrebbe aggredito i nemici dopo aver risposto “La mia testa non si piegherà come la testa di uno schiavo!”, ma alla fine dovette soccombere; fu ucciso a colpi d’arma da fuoco e poi decapitato.
Di questo castello di Porto Palermo, che fu probabilmente costruito dai veneziani e che si trova all’estremità sud della baia, collegato al continente da un istmo lungo e stretto, Alì Pasha fece una delle sue residenze. Sono ancora riconoscibili dalla struttura le sue stanze, l’harem, la stanza della Favorita e altri ambienti, anche se non è rimasto più nulla dopo che il castello fu successivamente adibito a caserma e a magazzino, anche dagli italiani durante la Seconda Guerra Mondiale, come si vede da alcune scritte ancora presenti. Porto Palermo fu chiamato così proprio dai soldati italiani. Ma è un luogo che ha comunque il suo fascino, anche per lo splendido contesto in cui si trova.

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Prima di lasciare il castello, c’è anche una sorpresa. Scopriamo che il cassiere che è qui a vendere i biglietti è anche, nel tempo libero, apprezzato cantante in un gruppo di musica iso-polifonica. Non si può perdere l’occasione: Paola gli fa una piccola intervista e Nida gli chiede di cantare qualcosa per noi. Ci fa ascoltare un pezzetto di un brano tradizionale che si intitola “Moj Katina” (mia Katina), struggente canzone d’amore dedicata alla bella Katina, e riusciamo a strappargli anche la promessa di organizzare per noi un mini-concerto con il suo gruppo, o almeno una parte del suo gruppo, tentativo che purtroppo poi non si riuscirà a concretizzare.
Abbiamo ancora una piccola parte della mattinata e tutto il pomeriggio per goderci la spiaggia, dove Reshat ci sta aspettando e ha “occupato” un po’ di lettini per noi. Ci sta un primo bagno e poi un pranzetto, leggero ma non troppo, a base di insalata e cozze. Dopo pranzo, io e altri “coraggiosi” decidiamo di prestarci per un esperimento scientifico: Elena, che è un medico, è fieramente contro i No Vax (e ci mancherebbe altro), ma anche contro alcuni luoghi comuni che si tramandano da generazioni in ambito “medico”, come la congestione; ci sarebbero anche le malattie “da raffreddamento”, ma non hanno a che vedere con l’esperimento di oggi. Sulla congestione, dice Elena, non c’è il capitolo nel manuale di medicina interna, il mitico Harrison. Ovviamente da qui in avanti “Non c’è il capitolo” diventerà un altro dei tormentoni di questo viaggio. E se non c’è il capitolo, va smontata la convinzione, instillata in noi da generazioni di mamme, che dopo mangiato bisogna aspettare almeno tre ore per fare il bagno, altrimenti si rischia la temibile congestione. Per cui ci buttiamo in acqua subito dopo pranzo, disposti a mettere anche il nostro corpo a disposizione per la scienza. Va da sé che l’esperimento ha avuto successo, altrimenti non staremmo qui a parlarne.

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La spiaggia di Porto Palermo

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Ripartiamo col pullmino, che ci porta a fare una passeggiata a Qeparo, un altro villaggio che conserva alcune case tradizionali in pietra, ma per trovarle bisogna salire verso la collina allontanandosi dalla spiaggia. Poi si torna a casa.
Ceniamo in un ristorante a due passi dal nostro albergo: ancora del buon pesce, tzatziki e anguria, con la quale quasi sempre si finisce il pasto, se non c’è il dolce.
Poi si riparte alla ricerca del raki, e questa volta troviamo un posto in spiaggia che ce l’ha. Ci facciamo un primo bicchierino e poi, a sorpresa, il bis (e anche il tris) ce lo offre Reshat, che tira fuori all’improvviso una bottiglia di plastica e ce la passa assicurando che è “acqua” (una delle pochissime parole di italiano che conosce). Ma basta aprirla e si capisce immediatamente… a naso che non è acqua. È raki fatto in casa, fortissimo ma buono (a mio personalissimo avviso, ha più sapore di quello industriale). Insomma questo Reshat ha mille risorse; abbiamo scoperto, intanto, che ha una cinquantina d’anni ottimamente portati, un numero imprecisato di figli e addirittura è già nonno. E ha tre fratelli tutti uguali a lui e tutti autisti, ci ha raccontato Nida: dopo la fine del comunismo hanno fatto tutti la patente (prima poche persone guidavano e nessuno poteva possedere un’auto, per di più lui viene da una famiglia di contadini) e hanno messo su una piccola ditta di trasporti.
Così la serata si prolunga, uno dopo l’altro tutti salutano e vanno a dormire e alla fine restiamo io, Paola e Barbara a fare le ore piccole parlando della nostra amata radio, che sapete già qual è.

Sabato 24 agosto 2019

Questa notte, per le ragioni di cui sopra, non ho dormito molto e quindi mi va bene che il risveglio possa essere lento e rilassato, dato che oggi è un giorno libero: il programma prevede relax al mare, quindi non c’è un’ora fissata per l’appuntamento, solo chi ne ha voglia potrà fare per conto suo una gitarella nei dintorni. Ieri sera ci siamo messi più o meno d’accordo con Antonella e Maurizio, che pare siano oltre a me i soli interessati, per andare a vedere un canyon che sbuca su una baia che dicono sia paradisiaca. Ma partiremo sul tardi, perché loro si vogliono prima fare un bel bagno e poi colazione.
Quindi anche per me colazione lunga e lenta nel dehors dell’hotel: si sorseggia caffè chiacchierando e buttando un occhio, di tanto in tanto, allo schermo della TV sintonizzato su RaiNews, che trasmette la rassegna stampa di un’altra giornata di crisi di governo. Qui su quasi tutte le TV si vedono i canali Rai, è una tradizione che dura da molto tempo. Come si sa, negli anni ’60, ’70 e ’80 tutti in Albania guardavano la Rai, a volte con mezzi davvero di fortuna: si racconta di gente che stava per ore con l’antenna (ovviamente autocostruita) in mano orientata nel modo giusto o di altri che a turno tenevano una forchetta in bocca collegata all’antenna, perché così per qualche strano motivo migliorava il segnale. Era un atto di disobbedienza anche molto rischioso, si poteva addirittura finire in galera se qualcuno faceva la spia; ma era, in quel periodo, l’unica finestra sul mondo esterno, l’unica possibile fuga dalla televisione di regime. Generazioni di albanesi sono cresciute guardando la Rai e sognando l’Italia, che per loro era davvero “L’America”. E così hanno anche imparato l’italiano, che tuttora è parlato da tantissime persone, giovani e meno giovani, anche persone che non sono mai state in Italia; e anche se ora, ovviamente, di canali da guardare ce ne sono a decine, e l’Italia non è più il sogno proibito.
Verso le 11 si parte: nel frattempo anche Laura si è unita a noi nell’avventura. Grazie a Nida, che nonostante sia il giorno di riposo anche per lei è stata gentile e disponibile ad aiutarci a organizzare la cosa, abbiamo contattato un tassista che puntualissimo è venuto a prenderci per portarci a una ventina di chilometri da qui, dove inizia il sentiero che scende verso la baia di Gjipe, la nostra meta.
Si chiama Jakos ed è, lo scopriamo appena saliti sul suo taxi, un grande personaggio. Parla tre lingue insieme senza conoscerne, con tutta evidenza, nessuna: un po’ di italiano, un po’ di inglese e, chissà perché, un po’ di greco; forse è convinto che italiano-greco una faccia una razza… o forse è l’unica lingua che un po’ sa davvero, in fondo siamo a pochi chilometri dal confine greco. Non so bene come, sulla sua autoradio riesce a prendere delle radio italiane. Non sapendo bene cosa dire per intrattenerci durante il breve viaggio, e soprattutto in che lingua dirlo, inizia a snocciolare marche di auto: intuiamo che è una specie di sua Top Ten delle macchine più belle: Mercedes, BMW, Audi… si capisce che gli piacciono le tedesche, come del resto, pare, a tutti gli albanesi. Il suo taxi è una Mercedes, non nuovissima magari ma grossa. Però in nostro onore non può non nominare Ferrari e Lamborghini; se poi gli diciamo: “E la Porsche?”, lui deve per forza cambiare la classifica. Insomma le posizioni cambiano vorticosamente, è una Top Ten molto fluttuante. Ci chiede che macchina abbiamo noi e, quando glielo diciamo, se la ride: per lui – fa capire – sotto i 7 metri di lunghezza non si può, non esiste. Forse fa un po’ lo sbruffone, ma il concetto di fondo è quello: avere una macchina piccola (e per lui meno di 7 metri è piccola) è il più grande disonore per un uomo.
È fatto così, è uomo di pochi concetti ma chiari. Tornando per un attimo serio, ci tiene a fissare bene l’ora dell’appuntamento per il pomeriggio, quando ci dovrà tornare a prendere. Dopo un breve conciliabolo tra noi, gli diciamo che alle quattro va bene, e lui da quel momento ripeterà ossessivamente “Four o’clock” più o meno ogni dieci secondi.
Cominciamo a salire, la strada si stringe e diventa tortuosa. Jakos cerca, facendo appello a tutto il suo limitatissimo vocabolario inglese, di raccontarci qualcosa del canyon e della baia ma Laura gli chiede delle aquile. Non siamo nel paese delle aquile? E allora, dove posso vedere le aquile? “Eagles! You know, eagles?” (e fa il gesto delle ali con le braccia). Lui la guarda perplesso. Non siamo sicuri che abbia capito, ma se ha capito non sa cosa dire. Non è materia sua, diciamo.
Arrivati al parcheggio, ci saluta con un’ultima raffica di “Four o’clock” e noi ci incamminiamo su un sentiero di terra rossa piuttosto ampio (ci passa, sia pure a fatica, anche qualche fuoristrada). Non c’è nessuna indicazione, ma è l’unico che c’è e le poche persone che vediamo vanno di lì. Ci fermiamo a comprare fichi e pesche da un ragazzino che vende frutta con la sua bancarella, e si va. Facciamo una mezz’oretta di cammino, durante la quale incontriamo ai bordi del sentiero almeno due “funghi”, ma non è escluso che ce ne siano altri più lontani dal sentiero o nascosti dal fogliame. I “funghi” sono in realtà dei bunker, chiamati così perché hanno proprio la forma di grossi funghi che spuntano dal terreno. L’Albania è disseminata di questi bunker. Le ondivaghe alleanze internazionali di Hoxha, prima con la Jugoslavia di Tito, poi con l’Unione Sovietica di Stalin, quindi con la Cina di Mao e infine l’orgoglioso isolamento autarchico, lo portarono a vedere nemici dappertutto, dai paesi comunisti ex “fratelli” del Patto di Varsavia, all’Italia e alla Grecia del Patto Atlantico. Fu l’invasione della Cecoslovacchia il fattore scatenante che convinse Hoxha ad avviare il programma di bunkerizzazione dell’Albania. Inizialmente le fortificazioni furono costruite solo al confine settentrionale con la Jugoslavia, a quello meridionale con la Grecia e sulla costa che guardava verso l’Italia. Ma a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta, il programma fu intensificato e la produzione di bunker divenne frenetica, grazie anche al diffondersi di fabbriche specializzate.
Quanti siano è impossibile saperlo a causa della distruzione degli archivi. Le cifre che si leggono oscillano da un minimo realistico di 35 mila a cifre incontrollabili di centinaia di migliaia. Quel che però è certo è che la produzione massiccia di bunker, che utilizzava necessariamente ferro e cemento armato, assorbì una parte consistente delle risorse finanziarie statali, in un Paese che mancava di tutto e in particolare di infrastrutture per l’energia, trasporti, istruzione e sanità.
È proprio questo che Antonio Caiazza ha chiesto a Ramiz Alia, il delfino di Hoxha, colui che ne prese il posto dopo la sua morte e resse in qualche modo il paese fino al crollo del regime:
“Allora condivise quella scelta? Che cosa ne pensava? Tanto cemento non avrebbe potuto essere utilizzato per strade, case, ponti, fabbriche…?”
“Non facevo parte del Consiglio di Difesa.” – è la risposta di Ramiz Alia – “Ma i bunker li vedevo anch’io. L’Albania cominciò a esserne disseminata quando i sovietici occuparono la Cecoslovacchia, verso la fine del 1968. In quel tempo si pensava che qualcosa del genere sarebbe potuto succedere anche da noi, temevamo uno sbarco. Sbagliavamo? Chi lo sa? Per quanto concerne le spese, pagava tutto la Cina, e i fondi arrivavano con una destinazione precisa, per i bunker, non potevamo farci altro!”
Dopo la caduta del regime, la produzione cessò e i bunker – mai utilizzati – rimasero come un ingombrante relitto del passato. Una parte è stata distrutta da bande di zingari o da piccole ditte specializzate, alimentando una micro-economia locale: fatti esplodere e pazientemente picconati, hanno liberato il prezioso metallo, venduto poi alle fonderie. Un’altra parte è stata riutilizzata nelle forme più diverse e fantasiose. Nelle campagne i bunker sono diventati depositi di attrezzi agricoli, magazzini di prodotti alimentari, porcilaie, stalle, basi per filari di viti, distillerie di raki, forni e cucine da campo. Sulle spiagge sono stati creativamente dipinti e sono diventati beach bar, distributori di bevande, cabine spogliatoio, pizzerie e piccoli ristoranti, discoteche, bed and breakfast. Di tutto e di più.
Il sentiero è lungo circa 4 km, ma le ultime centinaia di metri si fanno già con davanti agli occhi lo spettacolo di questa meravigliosa insenatura che si apre proprio allo sbocco del canyon, con l’acqua del mar Ionio che dall’alto rivela i suoi colori: 50 sfumature di blu, verde e turchese…
E viene voglia di buttartici subito, è inevitabile. Anche perché il sole non perdona, e l’ombrellone o te lo porti da casa o ciccia. Se vuoi noleggiarlo non si può, nessuno dei chioschi sulla spiaggia (due ristoranti e un piccolo bar) lo fa, anche se ci sono mucchi di ombrelloni di paglia buttati lì apparentemente inutilizzati. Forse è meglio così, che la spiaggia resti libera. Però almeno potrebbero portar via gli scheletri di ombrelloni arrugginiti che giacciono in un enorme ammasso in un angolo, e che in un posto così sono davvero un pugno in un occhio. Ma, insomma, stiamo vedendo che, come era lecito aspettarsi, la sensibilità ambientale qui è ancora un po’ di là da venire. Quando ci sono urgenze più urgenti è così.

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Fungo #1

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Fungo #2

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La spiaggia di Gjipe

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Nonostante tutto, è un posto spettacolare. Certo, c’è da dire che non è proprio tutto per noi, come sognavamo. Un po’ di gente è arrivata, chi dal sentiero e chi dal mare. Abbiamo scoperto che si arriva anche in barca: ogni tanto ne arriva una e scarica una ventina di persone. Ma va bene, direi che nel complesso non ci possiamo proprio lamentare.
Dopo il bagno, piacevolissimo, la solita insalata greca e un piatto di patatine da condividere mentre ci confrontiamo sui nostri gusti musicali e radiofonici. Dopo di che risaliamo il canyon per un pezzettino, scopriamo che c’è anche un campeggio dove si può prendere il caffè, ma poi ci rendiamo conto che è il momento di tornare: c’è Jakos che ci aspetta, “Four o’clock”. E ci sta che in salita ci possiamo mettere un po’ di più.

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Il canyon

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In realtà, accelerando un pochino il passo, arriviamo puntualissimi. Lui è già lì pronto, ma ci invita a prenderci il nostro tempo dopo la salita, a sederci un attimo a bere o a mangiare un po’ di frutta.
Con calma ripartiamo, e rifacendo a ritroso il pezzo di strada stretto, troppo stretto per essere a doppio senso di marcia, facciamo un brutto incontro: dopo aver incrociato già altre macchine, con le quali civilmente Jakos ha concordato chi avrebbe dovuto fare retromarcia per cercare uno slargo, ci imbattiamo in un camioncino rosso guidato da un tipo poco raccomandabile che proprio non ne vuole sapere: deve passare lui, non si inizia neanche a discutere. Per farcelo capire arriva col muso a pochi centimetri dal paraurti del taxi e ci guarda con occhi spiritati da serial killer. Gesticolando, invita Jakos a brutto muso ad andare indietro, senza ammettere repliche. Quando scende, vediamo che non solo è in bermuda a torso nudo, ma è anche scalzo: sta guidando a piedi nudi… Jakos saggiamente rinuncia e mette la retro finché trova il modo di farlo passare. Ci guardiamo straniti e ci ridiamo su, ma è veramente un incontro-scontro singolare.
Il resto della strada fortunatamente non propone altre emozioni di questo tipo, e così arriviamo all’albergo sani e salvi, in tempo per unirci a chi è rimasto qui in modalità total relax e fare un altro tuffetto prima di cena.

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Foto di Laura Cibraro

La cena la facciamo in albergo ed è ricca. Si parte con gli antipasti, che anche qui seguono un po’ la tradizione dei meze del mondo ottomano: fagioli, barbabietole, formaggio al forno. Poi della pasta, fatta davvero bene (del resto, qui conoscono il gusto italiano: se proprio sei in crisi di astinenza da pasta al sugo ti puoi lanciare, il rischio pasta scotta è minimo). Di secondo bocconcini di carne con verdure, e per finire un dolce tipico: si chiama Trileqe (ma attenzione, si legge “trilece”) ed è una delizia a base di pan di spagna immerso nel latte.

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Dopo una cena così ci vuole una passeggiatina digestiva, e magari un raki, ma stasera non faremo tardi: domani lasceremo Himarë per raggiungere Argirocastro, passando anche da Butrinto; si parte prestino, giornata piena.

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(TO BE CONTINUED…)