Viaggio nell’Albania stretta tra un passato che fatica a passare del tutto e un futuro che tarda ad arrivare. Un paese vicino ma sconosciuto, aspro ma con sprazzi di inaspettata dolcezza – Con Radio Popolare e ViaggieMiraggi
Capitolo 3: Argirocastro
Domenica 25 agosto 2019
Di buon’ora si parte da Himarë in direzione sud: la prima tappa di questa giornata, che si annuncia piena, sarà la visita all’importante sito archeologico di Butrint.
Per arrivarci si passa dalla zona di Lukova, dove più di 650.000 ulivi sono stati piantati col lavoro volontario di circa 80.000 persone durante il periodo comunista. Da qui, ancora oggi, si dice che venga l’olio più buono d’Albania.

Un distributore che porta il nome Kastrati (Castriota), quello di Skanderbeg
Poi si incontra Saranda, che è l’ultima città importante che si trova sulla costa meridionale prima del confine con la Grecia. Da sempre è considerata la capitale d’estate, la città del sole e del mare, anche se il nome Saranda deriva da quaranta, con riferimento a quaranta santi, martiri dell’epoca paleocristiana. Questo suo carattere fa sì che anche qui la costa sia stata molto sfruttata, in certi casi fino all’eccesso, strappando pezzi di terra alla montagna: si vedono aree dove proprio sembra tagliata con l’accetta.
Superata la città, si inizia a costeggiare un lago nelle cui acque salmastre si vedono molti allevamenti di cozze, altro prodotto per cui Saranda è rinomata insieme all’olio d’oliva. Qui si trova anche l’antico borgo costiero di Ksamil, il cui nome viene dal greco “Hexa milia”, cioè sei miglia: sei miglia marine da Corfù. Da qui è così vicina che pare di poterla toccare.

Foto di Laura Cibraro
Siamo ormai arrivati a Butrint, il sito archeologico più importante del paese; lo si intuisce già dal flusso di turisti che vediamo, turisti che – ci dice Nida – arrivano in ogni stagione. Per prima cosa vedremo l’agorà di Buthrotum (questo l’antico nome della città, latinizzazione del greco Buthroton). La fondazione della città risale all’VIII secolo a.C., per quello che si può dedurre dai reperti trovati qui, ma secondo la leggenda sarebbe molto più antica, risalente addirittura al XII secolo a.C., come sostiene Virgilio secondo cui Enea, nel suo viaggio alla volta dell’Europa dopo la conquista di Troia, si sarebbe fermato qui insieme ad Andromaca. Si dovettero fermare qui, secondo questa interpretazione mitologica, perché uno dei tori della carovana attraversò il canale di Vivari, ora parzialmente insabbiato, e finì in quella che sarebbe diventata l’agorà di Buthroton. Questo venne interpretato come un segno degli dei, il toro venne sacrificato e venne costruito il tempio. Da qui il nome Buthroton, che in greco significa “toro ferito”. Questa leggenda fu di grande aiuto per i due importanti archeologi che furono artefici degli scavi, uno italiano e uno albanese: Luigi Maria Ugolini e Hasan Ceka. Ugolini, che era un archeologo militare, fu mandato qui da Mussolini con l’obiettivo di trovare i confini del grande impero romano, che avrebbero giustificato l’appartenenza storica dell’Albania all’Italia. Leggendo Virgilio, iniziò gli scavi nel punto dove vennero trovate le gradinate del teatro, che risale al IV secolo a.C., quindi alll’epoca ellenistica, ma che venne poi trasformato dai romani.
L’importanza della città deriva principalmente dalla sua posizione strategica tra l’isola di Corfù, antica Korkyra, dove i corinzi svilupparono la loro civiltà, e il canale che nell’antichità permetteva alle navi di passare dalle acque del mar Ionio a quelle del lago di Butrint. Era come una propaggine di acqua dolce nel mare aperto, dove fermarsi in caso di pericolo, fare scambi e poi proseguire lungo le rotte commerciali verso l’Adriatico. Questa posizione è stata fonte di sviluppo commerciale per la città, proprio perché le navi di passaggio commerciavano anche con i locali. La città ha avuto diversi periodi di sviluppo, ma ha raggiunto il suo massimo splendore in epoca ellenistica nel IV-III secolo a.C., quando cominciò a prendere la forma di una vera città greca con il teatro, il tempio di Esculapio, le mura e l’acropoli con la porta Scea (o del lago) descritta da Virgilio. Poi arrivarono i romani, che trasformarono e ingrandirono la città, estendendola anche sulla pianura di Vrina, costruendo interi quartieri di ville, le terme, fontane, portando l’acqua attraverso un acquedotto (in epoca greca la città prendeva l’acqua da tre pozzi). Costruirono anche il gymnasium e adattarono il teatro dando più spazio agli artisti con l’aggiunta dei camerini dove gli attori si potevano preparare per lo spettacolo.
Più tardi Butrint diventò un centro religioso cristiano, nel periodo bizantino (V-VI secolo d.C.) e successivamente fu occupata da diversi imperi e civiltà, ciascuna delle quali ha lasciato tracce. I veneziani, nel periodo in cui la Serenissima dominava i mari, passarono anche di qui: si può vedere ancora oggi una tipica torre veneziana; poi vennero gli angioini e gli ottomani. Tutti avevano interesse a conquistare la città, cosa che era diventata via via più facile con il lento declino iniziato nel VI secolo fino al XIII, epoca in cui era diventata ormai solo un grande villaggio.
Iniziando la visita dall’agorà, possiamo notare i diversi strati di storia; l’attenzione è attratta in particolare dalle gradinate del teatro greco, con la parte aggiunta dai romani dedicata agli artisti. La parte romana è riconoscibile anche dall’Opus reticulatum, la tipica tecnica edilizia romana tramite cui si realizzava il paramento di un muro in opera cementizia, utilizzata soprattutto a partire dalla prima metà del I secolo a.C. Ma la città prese vita dal tempio di Esculapio, che attirava persone che venivano a portare offerte fin dal IV-III secolo a.C. e che venne successivamente modificato per includere il teatro e quello che era probabilmente un albergo per i pellegrini. Con i soldi raccolti dalle offerte, l’agorà veniva man mano ampliata. Quella oggi visibile, dopo il restauro, è la versione romana del II secolo d.C.; il santuario aveva all’interno del suo perimetro almeno una sorgente e dopo la demolizione della stoa (corridoio coperto) la strada cerimoniale costruita lungo le mura dava accesso alla sorgente.
Il teatro fu scoperto da Luigi Maria Ugolini tra il 1928 e il 1930. La sua più grande scoperta fu una fila di statue di fronte al palcoscenico, tra cui la famosa “Dea di Butrinto”, poi riconosciuta come “Apollo di Butrinto”, quella della testa che abbiamo visto al museo di Tirana. Il primo teatro, nello stile greco, era usato dai fedeli e dai sacerdoti per cerimonie religiose e discussioni pubbliche. Da un’iscrizione si è accertato che il teatro fu costruito con le offerte del santuario. Sulle mura sono state ritrovate anche diverse iscrizioni che registravano la liberazione di schiavi in onore del dio Esculapio. Anche le donne avevano il potere di liberare gli schiavi, a testimonianza dell’importante ruolo della donna nella società illirica, ruolo che successivamente non si mantenne nella società greca e poi romana. Gli schiavi, a Butrinto, erano in genere prigionieri di guerra.
Nel II secolo d.C. il teatro fu ricostruito e ingrandito nello stile romano, con il palcoscenico, e divenne il centro della città.
Butrinto fu dichiarata colonia romana da Cesare, che arrivò qui nel 44 a.C., e sviluppata da Augusto, suo figlio adottivo, dopo aver sconfitto Antonio ad Azio, a un centinaio di chilometri da qui. Augusto fece costruire un nuovo acquedotto e un ponte sul canale di Vivari. Ma anche ville, come quella di cui si conservano i resti, con i pavimenti a mosaico. La maggior parte dei mosaici non sono purtroppo visibili, perché per proteggerli è necessario coprirli con un telo e con del materiale inerte. Nel museo di Butrinto si possono vedere le grandi statue di Augusto, della moglie Livia e del suo generale Marco Agrippa, quest’ultimo particolarmente interessante per me perché per la prima volta ho l’opportunità di vedere che faccia aveva l’uomo a cui è dedicata la piazza dove abito a Milano.

Opus reticulatum

Le iscrizioni che ricordano gli schiavi liberati
Le terme furono costruite alla fine del secondo secolo dopo Cristo. L’area scavata mostra l’apodyterium (lo spogliatoio), un bagno pubblico e una camera calda con una piscina semicircolare.
Verso la fine del I secolo d.C. l’espansione della città era arrivata fino al canale di Vivari e alla pianura sulla riva opposta. Il centro della città era stato ridisegnato per ospitare molti edifici pubblici, alcuni dei quali finanziati da privati, compreso un bagno pubblico il cui complesso non è ancora stato interamente riportato alla luce. La pianta della città romana era costituita da un sistema regolare di strade che divideva la città in insulae. Scavando una di queste sono stati ritrovati i resti di un edificio che poteva essere un gymnasium o una villa privata, con una fontana nel cortile. Nel muro dietro l’area dove si trovava la fontana sono ricavate tre nicchie ad arco con mosaici, raffiguranti due anfore e un cinghiale.
Vediamo anche i resti di un altro grande palazzo, che si pensa risalga all’incirca al 400 d.C. e fosse di proprietà di un uomo di rango, forse un senatore. Il palazzo, con il suo grande cortile, fu poi abbandonato e utilizzato nei secoli successivi da pescatori e artigiani, come area di mercato. Nel XIII secolo nell’area furono costruite abitazioni e forse una chiesa.
Passiamo poi a vedere il battistero e la basilica. Il battistero è un importante monumento del primo periodo bizantino e ha un bellissimo pavimento a mosaico, che consiste di sette strisce circolari che circondano la fonte battesimale, richiamando così il numero otto che nella cristianità è il numero della salvezza e dell’eternità. La salvezza è anche uno dei temi principali del mosaico, che rappresenta l’acqua del battesimo come acqua di vita. C’era poi un’altra stanza adiacente che serviva probabilmente al vescovo per istruire i catecumeni, anche questa con un bellissimo pavimento a mosaico dove i motivi comprendono uccelli, rami carichi di frutti, pavoni e vasi. Anche qui i pavimenti devono essere protetti, altrimenti la salita e discesa stagionale del livello della laguna circostante, che fa sì che siano ripetutamente sommersi e poi tornino in “secca”, provocherebbe danni irreparabili. Quindi purtroppo la copertura viene tolta solo occasionalmente per brevi periodi, ogni due o tre anni.
La basilica, come il battistero, fu costruita all’inizio del VI secolo d.C. ed è a tre navate separate da colonne, con capitelli riutilizzati da edifici precedenti. La struttura, dice Nida, è simile a quella dell’Abbazia di San Galgano, in Toscana. Il pavimento era a mosaico, creato dagli stessi artigiani del battistero. Le mura furono restaurate nel IX-X secolo; nel medioevo la basilica fu sostanzialmente ricostruita, e un lastricato in pietra fu posato sopra i pavimenti a mosaico. In città sono state trovate, oltre a questa, altre otto chiese.
Le spettacolari mura di Butrinto risalgono al IV secolo e sono costruite senza uso di malta a legare i blocchi di pietra. La Porta Scea, o Porta del Lago, fu scoperta dagli archeologi della missione italiana degli anni ’30, che la associarono alla Porta Scea menzionata nel III libro dell’Eneide. Sull’architrave della Porta del Leone, invece, si vede un bassorilievo che mostra un leone che azzanna alla gola un toro.
Da qui, seguendo le mura, si sale all’acropoli della cittadella. Sulla sommità c’è il castello veneziano, al cui interno è ospitato il museo.

La Porta del Leone

Il castello veneziano
Lasciato il sito, ci spostiamo alla spiaggia di Ksamil, molto bella ma parecchio affollata. Dovendo scegliere tra un bagno e un pranzo gustato con calma, ancora una volta a base di cozze innaffiate da birra Korça gelata, la maggior parte di noi sceglie la seconda opzione.
Dopo di che, si riparte verso l’entroterra e verso il cosiddetto “Blue eye”, un magico laghetto profondo circa 45 metri alimentato da una sorgente carsica in un ambiente naturale ben conservato. Peccato solo che troppi ragazzi ignorino il divieto di balneazione e si tuffino da una piattaforma traballante, togliendo un po’ di atmosfera al posto.
Da qui, senza altre fermate ci dirigiamo verso la prossima tappa, la magica città di Gjirokastra (Argirocastro in italiano), patrimonio dell’Umanità UNESCO e chiamata “Città d’argento” perché le pietre bianche dei suoi tetti splendono al sole come argento quando si asciugano dopo i temporali estivi, città natale di Enver Hoxha e del più noto poeta e scrittore albanese Ismail Kadare.
Cominciamo a salire tra le montagne del sud dell’Albania, che a quanto si dice non sono aspre e impervie come quelle del nord ma hanno comunque un discreto fascino. Per la prima volta da quando abbiamo lasciato Tirana abbandoniamo la costa per immergerci nei panorami dell’entroterra.
All’arrivo ci aspetta una meritata pausa doccia-riposino nel nostro hotel, che si chiama Bineri e che con i suoi interni in legno dal gusto vintage, il piacevole dehors e i curiosi nomi delle camere è senz’altro il più affascinante che ci è capitato finora.
Ma soprattutto ci aspetta l’appuntamento con il primo progetto che visiteremo, la Fondazione Gjrokastra (GCDO). Fondata nel 2001, la sua missione è quella di conservare, rivitalizzare e promuovere il centro storico di Gjirokastra. Questi gli obiettivi:
– conservare gli edifici storici di Gjirokastra e contribuire alla protezione della città patrimonio mondiale dell’UNESCO.
– contribuire a promuovere la rigenerazione economica nel cuore della città storica.
– promuovere lo sviluppo sostenibile in città e nella regione.
– sostenere e promuovere la vita culturale della città.
Un gioiello del progetto è il Centro Artigianale, inaugurato nel maggio 2007, che è il risultato di una partnership tra la GCDO e la Confederazione albanese Artigianato. Un edificio storico nel quartiere bazar di Gjirokastra è stato ristrutturato per ospitare un negozio per la vendita di souvenir albanesi fatti a mano. Gli artigiani ricevono l’ottanta per cento del prezzo praticato per i loro beni. Questo progetto racchiude la strategia del GCDO per la conservazione e lo sviluppo: ristrutturazione di strutture storiche che vengono poi messe a disposizione a beneficio della comunità locale.
Noi siamo loro ospiti per cena, una cena ovviamente a base di prodotti locali cucinati dalle donne dell’associazione: il piatto forse più tipico di questa città sono le polpette di riso, che qui si chiamano qifqi (pronuncia cifci); sono polpette che tradizionalmente si facevano con gli avanzi delle cene. Ma ci sono anche polpette di patate e l’immancabile byrek. Poi un dolce fatto con vari tipi di farina e con zucchero di canna (a dimostrazione che si cerca anche, quando si può, di aggiungere elementi contemporanei ai capisaldi della tradizione).
Dopo cena, Eli e Lubjana ci parlano dei loro progetti, a nome delle 47 donne nell’associazione. A cominciare da Sofra e Aneve (la tavola delle nonne), il progetto da cui nasce anche il luogo dove ci troviamo stasera, un locale che si chiama Hani e che fa anche da ostello, gestito da due donne, Oriela e Mary, che stasera hanno cucinato per noi. Le verdure vengono direttamente dal loro orto. Un altro progetto è stato pensato per aiutare le donne in difficoltà dando loro la possibilità di continuare e rivitalizzare i mestieri che si stanno perdendo. E poi c’è il progetto “Drinos pulito” (il Drinos è il fiume che passa di qui) che è centrato sul recupero e riciclo della plastica, per darle nuova vita e impedire che finisca, appunto, nel fiume. I sacchetti di plastica possono diventare altri oggetti, ad esempio costumi da bagno.
C’è anche un progetto legato in qualche modo all’Italia. Gli italiani qui sono stati sì occupanti, ma hanno anche portato sviluppo e sapere, cosa che gli albanesi non hanno dimenticato. Eli ci racconta che la dote di sua suocera, che lei ha ereditato, era stata tutta fatta da suore italiane. E questo progetto futuro mira ad impiegare alcune donne in un lavoro artigianale di ricamo, basato in particolare sul pizzo a tombolo.
Lubjana, che è la direttrice e si occupa in particolare della parte amministrativa e “commerciale” (nel senso che aiuta le donne in tutto quello che richiede un po’ di “marketing” e di uso dei social media), ci tiene a specificare che nell’associazione non c’è una gerarchia, sono una comunità e ognuno fa il suo. Ribadisce che conservare, restaurare e rivitalizzare sono le tre parole d’ordine. Qui il bazar è il cuore dell’economia locale, ma per mantenerlo in vita c’è bisogno anche di fondi, per cui l’altro suo lavoro è quello di trovare donatori.
Possiamo anche assaggiare ed apprezzare una prima versione di un’altra delle principali specialità albanesi, il gliko, che qui ad Argirocastro si declina in una forma simile a una confettura ed è fatto generalmente con mele, melograno e mele cotogne. Poi c’è l’amore, che è un altro ingrediente fondamentale. La parola gliko deriva dal greco e significa dolce, il dolce dello zucchero, nome che in questo caso è più che appropriato. Il gliko si può spalmare sul pane o gustare così, al cucchiaio.
Lunedì 26 agosto 2019
La visita di Argirocastro comincia salendo al castello, che domina la città e gode di una posizione di notevole importanza strategica lungo la valle del fiume. La cittadella fortificata è stata costruita intorno al XII secolo.
Lavori di ristrutturazione sono stati compiuti da Alì Pasha di Tepelenë dal 1812. Il governo di Zog I di Albania ampliò la prigione del castello nel 1932. Le prigioni del castello hanno ospitato numerosi prigionieri politici durante il regime comunista.

Verso il castello
Oggi il castello possiede cinque torri e ospita una torre dell’orologio, una chiesa, una cisterna e molti altri luoghi di interesse. Entrando si può vedere una parte del museo delle armi, che è uno di questi. Ci sono cannoni della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, tra cui quello di un carro armato Fiat del 1940.
C’è anche una gigantesca statua del periodo comunista che raffigura un partigiano albanese e che la nostra Barbara ha efficacemente definito “Un tocco di partigiano”.

Un antico forno

Un “tocco di partigiano”
Il castello, spiega Nida, dopo essere appartenuto agli ottomani, che lo usavano come caserma per i loro soldati, fu preso da Alì Pasha Tepelena, sempre lui, il pasha del sud, il nostro vecchio amico che abbiamo già incontrato a Porto Palermo. Anche lui lo usò per scopi militari, del resto è la posizione ad essere strategica.
Sul lato nord c’è una bella piazza, dove oggi c’è un palcoscenico utilizzato per il festival della polifonia che si tiene qui ad Argirocastro, ma prima su questa piazza davano gli alloggi degli ufficiali. Qui abbiamo occasione di vedere un gruppo di persone, probabilmente un gruppo folkloristico ma in gita di piacere, senza costumi, che improvvisa una danza popolare. Il festival, ci ha spiegato Nida, è nato nel periodo comunista e allora era un’occasione per valorizzare la cultura albanese, non solo del sud ma anche del nord. Oggi è un evento molto importante che attira gruppi da tutti i paesi dei Balcani ma anche da altre zone d’Europa. Durante il festival si cucinano qui anche cibi tradizionali, perché anche questi fanno parte del patrimonio culturale che si intende preservare.
Al castello è esposto un aereo, un aereo con una storia particolare, anzi due: così lo definiscono, l’aeroplano con due storie. È un aereo da ricognizione della US Air Force che nel 1957 atterrò all’aeroporto di Rinas, vicino Tirana. Il pilota, dopo qualche settimana, fu rimandato negli Stati Uniti, ma l’aereo rimase in Albania. Secondo gli USA il pilota, in volo tra Chateauroux e Napoli, era finito fuori rotta a causa della nebbia e, a corto di carburante, era stato costretto a un atterraggio di emergenza. Completamente diversa la versione di Radio Tirana, secondo cui l’aereo-spia era stato intercettato dalla gloriosa flotta aerea albanese e costretto ad atterrare. Forse non sapremo mai la verità. Fatto sta che ora l’aereo si trova qui, a monito del fatto che la verità può essere una questione di punti di vista, soprattutto quando c’è la guerra fredda di mezzo.
Dal castello si può vedere che oggi, dall’alto, la maggior parte dei tetti di pietra della città appaiono di pietra nera, non certamente d’argento; ma è perché la pietra di queste montagne, con il passare del tempo, cambia colore e diventa più scura. Ma la parte “nuova” del bazar, quella appena restaurata, quella sì ha i tetti d’argento. Per Ismail Kadare Argirocastro è, più semplicemente, la città di pietra; e su questo proprio c’è poco da discutere, sicuramente lo è. “La città di pietra” è il titolo di uno dei più famosi romanzi di Kadare, nel quale gli occhi dello scrittore bambino raccontano la costruzione del campo di aviazione, l’eccitazione per quel grosso giocattolo che era il bombardiere italiano parcheggiato nella vallata, i primi mitragliamenti aerei, le alterne avanzate degli italiani e dei greci e l’intervento risolutore dei tedeschi.
Kadare era ed è lo scrittore nazionale albanese, anche se non sono pochi quelli che gli rimproverano di essere stato un protetto di Hoxha, per la relativa libertà di cui godeva sotto il regime. Lui considera questa un’accusa ridicola, sostenendo che ciò che lo ha difeso è stata la sua popolarità, in Albania e all’estero. Secondo Kadare Hoxha, che non era uno stupido, sapeva che per l’immagine di un paese era più negativo mandare in carcere uno scrittore che massacrare gli abitanti di un villaggio. Del suo concittadino Enver Hoxha Kadare ha scritto: “Era un intellettuale, un dandy. D’estate girava tutto il giorno con il vestito di lino bianco e le scarpe di vernice, facendo roteare il bastone da passeggio in aria”. Dopo la caduta del comunismo Kadare ha detto di lui che era pazzo, assetato di potere, opportunista; mentre il suo regime lo ha definito crudele, ma forse più ottuso che crudele, assurdo di un’assurdità metafisica.
Kadare, in una sua poesia, ha anche ripreso una leggenda che fornisce la spiegazione più affascinante per il nome della sua città: quella della principessa Argjiro. Argjiro era la sorella del signore locale quando il castello fu preso dagli invasori ottomani nel XV secolo. Secondo la leggenda lei rifiutò di arrendersi e, presa la sua bambina, si buttò dall’alto delle mura del castello. Lei morì, ma la bambina miracolosamente sopravvisse e dove Argjiro cadde dalle rocce iniziò a uscire del latte per nutrire la bambina. Le bianche rocce calcaree alla base delle mura del castello sarebbero la prova di questo miracolo. Di Argjiro Kadare ha scritto:
“Quindi la veloce Argjiro
corse con la sua bambina,
si buttò come un uccello nel vento,
dalla fortezza all’abisso,
roccia su roccia per questo spezzata,
cadde come una stella ma senza estinguersi”.
Argirocastro sarebbe allora la città di Argjiro, Argjiro la principessa.
Qui c’è anche un luogo santo della comunità Bektashi. I Bektashi sono musulmani, ma sono musulmani appartenenti a un ordine sufi diffuso principalmente in Albania. Il bektashismo condivide molti tratti con altre religioni: assieme al Corano, anche la Bibbia e la Torah sono testi sacri. Come per tutti gli ordini sufi, che sono basati sul misticismo, la tolleranza è ciò che caratterizza il credo dei Bektashi: l’alcol non è bandito e le donne non portano il velo. A dir la verità, finora ci è capitato di vedere pochissime donne velate; l’impressione è che, in generale, l’Islam albanese sia piuttosto tollerante.
I luoghi di preghiera dei Bektashi sono le tekke. A differenza delle moschee, nelle tekke non ci sono minareti e uomini e donne pregano insieme. Tekke, in Iran, è il luogo dove si preparano le cerimonie per la festa dell’Ashura, la più importante ricorrenza religiosa sciita (l’Iran è il più importante paese sciita). Probabilmente c’è un legame, dato che i Bektashi sono senz’altro più vicini all’Islam sciita che a quello sunnita, tant’è vero che come per gli sciiti il loro profeta è Alì, genero e cugino di Maometto. Gli sciiti credono che il potere religioso debba venire anche dal sangue, quindi che la guida religiosa e politica (quello che anticamente era il califfo) debba essere discendente del Profeta.
La storia dei Bektashi ha origini lontane (l’ordine è stato fondato nel XV secolo), ma in tempi più recenti sono due i fatti storici che li portano a concentrarsi in Albania: prima, nel 1826, il sultano ottomano Mahmud il Giusto abolisce il corpo dei giannizzeri, composto in gran parte da Bektashi; storicamente, i giannizzeri venivano spesso da altre fedi religiose e per loro, dovendo forzatamente aderire a quella islamica, era più semplice abbracciare il credo Bektashi. Poi, 99 anni dopo, Atatürk sopprime definitivamente l’ordine, allo scopo di favorire l’identificazione tra la neonata identità nazionale turca e la religione sunnita, vissuta comunque in modo molto laico. È allora che il clero Bektashi si trasferisce in Albania, dove sotto la protezione di re Zog apre la sede ufficiale della comunità a Tirana. Oggi, dopo il periodo comunista che ha visto la persecuzione di tutte le comunità religiose, compresi i Bektashi, si stima che sia di fede Bektashi il 20% dei musulmani albanesi (che sono circa il 70% della popolazione totale). Il leader dell’ordine si chiama Baba Edmond Brahimaj (Baba Mondi). I fedeli Bektashi pregano due volte al giorno, all’alba e al tramonto. Tutto questo ce lo spiega la nostra Nida, che è di papà Bektashi e mamma musulmana ma precisa che lei vive la sua fede in modo molto “personale”: “Io credo nella religione di Eronida Mataj” (che poi sarebbe lei).
Questo piccolo edificio all’interno delle mura del castello è una türbe (cioè una tomba, dal turco) di un Baba Bektashi, sostanzialmente un sacerdote. Le persone che studiano per far parte del clero Bektashi possono diventare dervisci, e in questo caso possono fare la scelta del celibato (ma non sempre lo fanno, non è obbligatorio). Da dervisci possono diventare Baba, poi Dede, e da lì iniziare a risalire la gerarchia. Il colore più usato per le loro vesti è il verde della natura.
Lasciamo il castello e scendiamo di nuovo in città per visitare una magnifica antica dimora ottomana, Casa Skenduli. Dove ad accoglierci ci sono proprio gli eredi della famiglia Skenduli: Nassip, che Nida definisce un monumento della cultura di Argirocastro, e la figlia Ela, che ci farà da guida. Durante il periodo comunista la casa era stata ovviamente tolta alla famiglia, che però ne è tornata in possesso nel 1993, dopo la caduta del regime.
La casa, costruita nel ‘700, è stata abitata fino al 1981, quando venne confiscata e trasformata in museo etnografico. Quando la casa è tornata alla famiglia il museo si è spostato in un altro edificio vicino. È una casa a due torri, collegate da una balconata. Ha 44 porte, 64 finestre, 6 bagni e 4 hammam.
È costruita in pietra e legno di castagno. Le assi di legno, con la loro elasticità, fungevano da protezione in caso di terremoto. Questa è zona sismica, e già allora si era imparato a costruire con criteri antisismici con i materiali naturali in uso all’epoca.
Nel 1700 non c’erano letti, in questa casa. Si dormiva per terra, su materassi. I materassi e le coperte di giorno venivano riposti in un grande armadio e la sera tirati fuori. I bagni, con un sistema di tubazioni, scaricavano direttamente nel fiume. In ogni stanza c’è un camino. Il fuoco veniva usato anche per tostare il caffè che poi veniva macinato a mano in un grande macinino di pietra. In alto c’era la dispensa, alla quale si accedeva con una scala.
In alcune stanze c’è ancora il pavimento originale di pietra, rosso e nero come i colori della bandiera albanese.
La stanza più bella è quella dei matrimoni, che ha 15 finestre e l’unico camino decorato. Le decorazioni sulla porta rappresentano fiori di melograno, simbolo di prosperità, che nella cultura islamica si crede sia il frutto del giardino di Allah. La famiglia Skenduli era una famiglia Bektashi e la cerimonia era solo civile: il momento centrale era lo scambio degli anelli. Le ragazze non sposate potevano guardare solo dal matroneo, che c’è in ogni stanza, da dietro una grata.
Un paio di stanze erano utilizzate per gli ospiti, che potevano essere amici di famiglia o semplici viaggiatori; dato che le donne non viaggiavano, i viaggiatori che arrivavano erano solo uomini e non potevano vedere mai la signora o le altre donne di famiglia, che preparavano da mangiare per gli ospiti ma poi davano i piatti ai ragazzi, che li portavano in tavola. Si mangiava su tavoli bassi rotondi, seduti a terra sui cuscini.
Dopo questo tuffo nel mondo ottomano di tre secoli fa, torniamo nel mondo di oggi e dopo aver passeggiato ancora un po’ nel centro storico andiamo a pranzo all’Hotel Restaurant Kodra. La terrazza del ristorante è piacevole e la maggior parte delle persone del gruppo preferisce mangiare fuori, ma anche oggi fa molto caldo e anche se siamo all’ombra si sente. Tra l’altro nel gruppo sta iniziando probabilmente a diffondersi un qualche virus, dal momento che alcune persone accusano problemi di stomaco o intestinali.
È un peccato perché il pranzo è molto buono, ovviamente a base di specialità locali. Abbiamo scoperto che per cucinare i qifqi esiste una particolare padella che si trova solo qui, con il fondo sagomato apposta per cuocere le polpette, con una serie di cavità della misura giusta per farcele entrare.
Continua, intanto, la lotta senza quartiere tra Giampiero e le “veterofemministe” Elena e Gabriella.

Le veterofemministe
Il pomeriggio è libero ed è dedicato allo shopping compulsivo per le vie dell’antico bazar. Purtroppo percorrerle è un po’ disagevole perché sono in corso lavori di rifacimento della pavimentazione, quindi in pratica si cammina in un cantiere, ma hanno fascino. Tra l’altro, oggi abbiamo avuto un acquazzone, molto breve ma violento, il primo da quando siamo qui. Proprio uno di quei temporali estivi alla fine dei quali rispunta il sole e i tetti brillano.
Io voglio comprare del gliko dalle signore della Fondazione Gjirokastra: ieri sera non ci sono riuscito perché qualcuno ha fatto incetta e i vasetti sono finiti. Poi ho deciso di comprarmi una maglietta con l’effige di un altro illustre figlio di Argirocastro, Çerçiz Topulli, che fu uno dei protagonisti del Risorgimento albanese, ossia della lotta armata per la liberazione dell’Albania dall’occupazione ottomana. Molti lo considerano il Che albanese, perché organizzava gruppi armati sulle montagne che utilizzavano tecniche di guerriglia. Dopo la proclamazione dell’indipendenza dell’Albania, avvenuta il 28 novembre 1912, entrò a far parte del governo appena formato da Ismail Qemali operando sempre molto attivamente per la difesa dei territori albanesi nei Balcani. Venne ucciso il 15 luglio 1915 a Scutari in uno scontro a fuoco con l’esercito del Montenegro, durante la Grande Guerra. C’è anche un monumento che lo ricorda.
Prima di cena vogliamo toglierci un altro sfizio: assaggiare le melanzane dell’imam svenuto (imam bayildi) che sono un piatto turco a base di melanzane ripiene stufate, cipolle, pomodoro e tanto olio. La leggenda vuole che l’imam, dopo aver assaggiato queste melanzane, sia svenuto per la loro bontà, e c’è un posto, qui ad Argirocastro, che le fa davvero… da svenire.
È un ottimo appetizer per la cena, che facciamo in un locale che si chiama Kujtim, a due passi dal nostro albergo. Anche qui solita infilata di specialità locali, dalle ormai immancabili polpette di riso al formaggio stagionato (che anche qui come in tutti i Balcani si chiama kashkaval) fatto al forno.
Dopo cena l’ultima passeggiata per le vie dell’antico borgo, ci stavamo ambientando ma è già ora di salutare: domani si parte per Përmet.
(TO BE CONTINUED…)
Pingback: Dove volano le aquile? – 3 — Macondo Express – Revolver Boots