Viaggio nell’Albania stretta tra un passato che fatica a passare del tutto e un futuro che tarda ad arrivare. Un paese vicino ma sconosciuto, aspro ma con sprazzi di inaspettata dolcezza – Con Radio Popolare e ViaggieMiraggi
Capitolo 4: Përmet e Berat
Martedì 27 agosto 2019

Partiamo abbastanza presto, perché ci aspetta un viaggio non brevissimo: i chilometri non sono poi così tanti, ma bisogna tener conto delle strade albanesi, che stiamo cominciando a conoscere; e poi faremo una lunga pausa, con una passeggiata in montagna e una capatina alle terme.
La strada ci conduce attraverso la meravigliosa valle formatasi alla confluenza dei fiumi Drino e Vjosa, che hanno modellato il paesaggio formando la possente gola Kelcyra, un suggestivo collo di bottiglia scavato nella montagna.

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Dopo un paio d’ore abbondanti di viaggio, verso le 11 arriviamo nei pressi delle sorgenti termali naturali di Benja, le cui acque sulfuree sono ritenute benefiche per innumerevoli disturbi. Ma prima di approfittarne noi abbiamo in programma di salire verso l’antico borgo di Benja, che si trova parecchio più su. La salita richiede in realtà poco più di mezz’ora, ma con questo caldo potrebbe diventare impegnativa e quindi noi siamo stati istruiti a dovere: scarpe comode, anche sandali ma no suole lisce, cappellino o altro copricapo per il sole e provvista d’acqua. Così attrezzati ci apprestiamo ad affrontare la salita; il gruppo tende un po’ ad allungarsi, c’è chi fa un po’ fatica, ma bene o male tutti raggiungiamo la meta, qualcuno di noi addirittura… cantando! Il repertorio musicale è sempre un po’ troppo veterofemminista per i gusti del nostro Giampiero, ma se ne deve fare una ragione. Del resto noi maschietti siamo in netta minoranza, 4 contro 12.
Il villaggio si sta purtroppo spopolando sempre di più ma nonostante questo a riceverci c’è un comitato di accoglienza formato da tre o quattro bambini, che non è poco da queste parti. Poi facciamo la conoscenza di Vassilika (il nome è greco, ma qui siamo sempre vicini al confine, non dimentichiamolo), che è la moglie del maestro del villaggio. Ci sarebbe dovuto essere lui a riceverci, lui che è stato ed è tuttora un fondamentale punto di riferimento per questa piccola comunità, ma purtroppo è dovuto andare a Tirana per partecipare al funerale della sorella, un evento triste che non era possibile prevedere; e allora sarà lei a fare gli onori di casa, cosa che avrebbe fatto comunque ma dovrà farlo da sola.

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Prima di andare a casa sua, però, Nida ci porta a vedere la graziosa chiesetta ortodossa del villaggio, che è dedicata alla presentazione della Vergine al Tempio. Nelle chiese ortodosse, per tradizione, nell’iconostasi che separa il presbiterio dallo spazio dedicato ai fedeli, l’icona che rappresenta il santo (o in questo caso l’evento sacro) a cui è dedicata la chiesa è la seconda a sinistra partendo dal centro, dopo la Madonna col Bambino. Qui però purtroppo tutte le icone sono copie recenti, le icone antiche sono state trafugate negli anni successivi alla caduta del comunismo, quelli che tutti qui, come stiamo imparando, chiamano “gli anni del caos”. Quelli in cui, dopo un periodo di controllo poliziesco e maniacale su tutti gli aspetti della vita delle persone e in una fase di transizione che nessuno volle o riuscì a gestire, si creò una sorta di Far West in cui si poteva fare tutto e vigeva solo la legge del più forte. E in cui i criminali e quelli che volevano approfittare di questa situazione ebbero campo libero per appropriarsi di tutto; il saccheggio delle chiese è uno dei ricordi più spiacevoli di quel periodo.

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Vassilika ci accoglie nella sua casa, che ha un piacevole giardino, e ci fa accomodare tutti nel salotto, dove sul muro, sopra la TV, è appesa la foto del suo matrimonio.
Abbiamo l’opportunità di sentirle raccontare un po’ della sua vita, con la traduzione di Nida, e di farle qualche domanda, opportunità che Paola per prima non si lascia scappare, in vista di quello che potrebbe diventare uno speciale radiofonico. Ma anche noi abbiamo parecchie curiosità.
Lei è una signora che ha tra i 60 e i 70 anni, come il marito che è andato in pensione quattro anni fa, quando purtroppo anche la scuola del villaggio ha chiuso per mancanza di bambini.
Per prima cosa Nida ci dice che parlare con lei non sarà certo meno interessante che parlare con suo marito, perché loro hanno passato una vita insieme, hanno sempre fatto tutto e costruito tutto insieme; di questo siamo sicuri. Vassilika si alza, forse in segno di rispetto per gli ospiti, e inizia a raccontare. Non deve essere molto abituata a farlo, ma si capisce che lo fa volentieri. Ci parla delle due figlie, che ormai sono sposate: una abita a Përmet e l’altra vive in Grecia. E poi ci racconta del lavoro che facevano, lei e il marito, ai tempi di Enver. Sì, Enver. Gli albanesi più anziani tendono a chiamarlo ancora per nome, come erano quasi obbligati a fare durante il regime: era un segno che lo amavano, come uno di famiglia, e lui aveva col suo popolo questo approccio paternalista per cui voleva mostrarsi al tempo stesso severo e amorevole, come un buon papà (vi ricorda forse qualcuno?). Il marito era maestro elementare, e lei ragioniera. Ora siamo tutti e due in pensione, dice. Il villaggio ora è composto di 12 famiglie, le sole che sono rimaste: in tutto circa 50 persone, dedite praticamente tutte all’agricoltura e all’allevamento di bestiame. Queste sono le priorità. D’inverno tutto si addormenta e tende a spegnersi un po’, compresa la vita del villaggio, che invece d’estate è più vivace. Ci sono molte difficoltà a vivere qui: mancano negozi, manca l’assistenza sanitaria, mancano parecchie cose; però lei non vuole sottolineare questo aspetto, non vuole sembrare una che si lamenta. Del resto l’abbiamo visto, per arrivare qui occorre farsela a piedi su una mulattiera (qualcuno, in effetti, usa ancora asini e muli per trasportare le cose). Forse si può fare con una moto da cross, ma non so quanti ce l’abbiano. Per l’ospedale comunque bisogna andare a Përmet, che è a circa 20 km.

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Nida e Vassilika

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Ma prima di continuare a parlare, Vassilika dice che ci deve dare il benvenuto come si deve. Ci offre il tè, con una nuova versione di gliko rispetto a quello che abbiamo conosciuto ad Argirocastro. Qui non è come una confettura, ma è più simile a una composta di frutta, in questo caso di arancia. Sono pezzettoni di arancia immersi in una dolcissima gelatina impregnata di sciroppo di zucchero. Ottimo, però. Dimenticando per una volta le calorie (deve essere una bomba, da questo punto di vista) è davvero delizioso. E poi un raki fatto in casa che rivaleggia con quello di Reshat. Questa è la vera ospitalità albanese.
Poi Vassilika finalmente si siede in poltrona e inizia a raccontare. Si è sposata all’età di vent’anni, nel 1974. Il giorno del matrimonio è arrivata fin qui a cavallo. Lavorava come contabile a Petra, che era il centro di tutti questi villaggi; e a Petra ci andava a piedi, per sei anni, ogni giorno. Calcolava paghe e contributi per molti lavoratori di questa zona. Suo marito, lo sappiamo già, era il maestro di questo villaggio, una figura importante e molto rispettata nel mondo di allora. Con loro vivevano le due figlie, ma anche i suoceri. Una volta crollato il sistema, era difficile per lei trovare un altro lavoro e quindi si è data… all’agricoltura: produzione di cereali, patate, fagioli. Con questo e con lo stipendio del marito, che continuava a fare il maestro, mantenevano la famiglia. Si sono comprati una casa a Përmet perché vivere qui tutto l’anno, quando si diventa anziani, è dura. Così ora passano lì l’inverno e tornano qui al villaggio in estate. Le figlie sposate le hanno regalato tre nipotine in totale, ma lei e suo marito non fanno soltanto i nonni. Lavorano ancora la terra, nel periodo dell’anno che passano qui, e producono diversi prodotti “bio”, ormai su microscala: pomodorini e altre verdure, gliko e raki, ma quasi soltanto per loro.
È il momento delle domande. Elena, che è ginecologa, fa una domanda che può sembrare un po’ “deformazione professionale”, ma la risposta è interessante. Vuole sapere se Vassilika ha partorito in casa, e lei risponde che no, che è andata a partorire in ospedale a Përmet. In quel periodo, dice, era tutto molto più organizzato: tutti i villaggi avevano il telefono nell’ufficio postale, con quello si chiamava l’ambulanza; il servizio era ottimo, ti portavano in ospedale, partorivi e ti riportavano qui. Allora tutto funzionava perfettamente, ora è molto più difficile, bisogna arrangiarsi con i propri mezzi. Ma non solo, allora c’erano anche negozi qui, non bisognava muoversi dal villaggio per tutto. “Era molto meglio, secondo me” – conclude. Be’, è piuttosto eccezionale. Non mi era mai capitato finora, in un paese ex comunista, di sentire qualcuno rimpiangere apertamente il vecchio sistema. In Romania, in Ungheria, in Bulgaria, in Polonia, nella Repubblica Ceca; in tutti questi paesi, almeno per la mia esperienza, è praticamente impossibile tirare fuori a chiunque una sola parola positiva sul sistema comunista. È come se una legge non scritta impedisse di aprire anche il più piccolo spiraglio nella condanna totale e senza appello di quel passato, anche solo per dire che il sistema, pur nella sua mostruosità spesso schiacciante, garantiva comunque a tutti un livello minimo di vita. La ex Jugoslavia fa un po’ storia a sé: lì capita di sentire discorsi nostalgici, ma in realtà è più Jugonostalgia, più che il comunismo si rimpiange la Jugoslavia unita e pacificata che il regime di Tito, pur con tutte le sue storture, ha permesso di far vivere per più di quarant’anni. Qui in Albania invece – ci è già capitato – si sentono persone, e non solo anziane, che riconoscono che il regime era opprimente ai limiti della follia, ma certe cose che allora erano garantite ora non lo sono più, ora pochi hanno tanto e lo ostentano ma tanti non hanno niente. La stessa Nida, che pure non ha di fatto vissuto quel periodo se non da bambina piccolissima, essendo nata un anno dopo la morte di Hoxha, ogni tanto tra le righe fa capire che qualcosa di positivo quel regime lo aveva, ad esempio la cura del patrimonio storico e archeologico, o alcuni servizi per la collettività. Se lo fa è perché è qualcosa che sente dalle persone più anziane, che si respira nell’ambiente in cui è cresciuta. Penso che sia perché nessun paese come l’Albania ha vissuto in maniera traumatica una transizione che qui forse non è ancora finita, anche altrove ci sono state fasi più o meno disordinate ma una corsa folle verso gli aspetti più deteriori del capitalismo come quella che c’è stata qui è qualcosa di unico: sono “gli anni del caos”, forse, che spiegano tutto. Anche quelli sono impressi nella memoria della gente tanto quanto quelli del comunismo autarchico, forse di più perché sono più vicini nel tempo.
C’è spazio poi per altre domande e altre curiosità, mentre facciamo girare gli album di fotografie, molte in bianco e nero, che Vassilika ha tirato fuori per raccontarci anche con le immagini la storia della sua famiglia e del villaggio. Per esempio, restando sul tema bambini, e su come era difficile farli crescere lavorando tutto il giorno e dovendo fare ogni giorno lunghi spostamenti a piedi, viene fuori che le mamme che lavoravano allattavano i figli in genere solo per quaranta giorni. Poi si usava dare ai bambini un preparato fatto con farina, olio e acqua, o altre pappe a base di acqua e zucchero per dare nutrimento.

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Selfie di gruppo con Vassilika

Anche se vorremmo prolungare il più possibile questo incontro, viene il momento di salutare Vassilika e di avviarci in discesa verso le terme: giù c’è Reshat che ci aspetta. Lungo la strada cade qualche goccia di pioggia (senza peraltro che il caldo diminuisca per niente), ma non ci facciamo spaventare e comunque smette presto.
Consumiamo un pranzo al sacco a base di frutta, biscotti, crackers o altre cose comprate questa mattina durante una breve sosta-spesa: una volta tanto staremo più leggeri. E poi si va alle terme: ci sono due “vasche” naturali che si raggiungono attraversando un vecchio ponte in pietra ottomano sul fiume. Non tutti hanno voglia di bagnarsi, anche perché non c’è il sole, ma l’acqua è tutto sommato piacevole e non “puzza” neanche in maniera eccessiva: insomma, un momento rilassante che ci sta, anche se io personalmente in genere non sono un fan delle terme.

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Il ponte ottomano

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Le terme di Benja

Dopo di che, si riparte in direzione di Përmet, che raggiungiamo più o meno a metà pomeriggio. Ci sistemiamo all’Hotel Alvero, che è collegato al progetto che visiteremo. Una doccia veloce e poi ci rechiamo in una sala polifunzionale del comune, dove è organizzato l’incontro con la ONG italiana Cesvi, e nello specifico con Giorgio, un operatore che vive e lavora in Albania da molti anni.
Cesvi opera in Albania dal 1995. Inizialmente l’attività si rivolgeva in particolare al settore della sanità pubblica nelle aree rurali. Fino ai primi anni duemila, Cesvi ha operato per favorire il rafforzamento e il decentramento di un sistema sanitario fragilissimo. Oggi lavora nel settore agricolo e per la promozione del turismo nel sud del Paese. Nel distretto di Përmet Cesvi opera focalizzandosi appunto sulla promozione del turismo, la produzione agroalimentare, la formazione professionale, l’artigianato, la creazione di nuovi posti di lavoro e in generale l’aumento della qualità della vita della popolazione. Questo lavoro ha portato alla nascita di gruppi locali e a una proficua collaborazione tra i vari stakeholder locali allo scopo di promuovere il territorio attraverso un modello di turismo sostenibile integrato, rispettoso dell’ambiente e legato alle tipicità agroalimentari, alle bellezze naturali e al patrimonio artistico-culturale dell’area.
I fondi arrivano, spiega Giorgio, dall’Unione Europea, da donatori privati, ma soprattutto dal Governo italiano attraverso il Ministero degli Affari Esteri e l’Agenzia per la Cooperazione e lo Sviluppo Internazionale. Sono le nostre tasse, insomma, che in parte finiscono a finanziare questi progetti. In Albania Cesvi ha iniziato lavorando sull’emergenza, sui tanti problemi che il paese ha avuto dal 1991 almeno fino alla fine degli anni ’90. Si lavorava nel sanitario e nel sociale, dove le emergenze erano tante alle quali nel 1999 si è aggiunta l’emergenza Kosovo con l’arrivo di decine di migliaia di profughi. I profughi poi, col tempo, sono tornati a casa ma le ONG sono rimaste, perché l’Albania in quegli anni era comunque messa peggio del Kosovo. Negli anni successivi l’attività si è gradualmente spostata verso progetti di sviluppo rurale e di turismo. Turismo come promozione del territorio, perché questa è ancora un’area marginale, le strade sono migliorate solo negli ultimi anni ma prima erano un disastro, quindi l’area non ha avuto un grande sviluppo economico. I giovani tuttora tendono ad andare via, perciò servono progetti di sviluppo che diano loro l’opportunità di restare. Quindi appunto formazione professionale, sostegno alle imprese, progetti comunitari, partecipazione a fiere ed eventi, microcredito attraverso le banche locali.
C’è sempre una controparte locale, che sono le istituzioni pubbliche, soprattutto i comuni. Questo edificio dove ci troviamo, che è un’ex base militare, è del Comune, è stato ristrutturato attraverso i progetti di Cesvi con la cooperazione italiana e ora, insieme ad altri uffici e a un museo, ospita anche gli uffici del Cesvi. Si fanno corsi per i cuochi, per le guide alpine, per receptionist, camerieri, standard igienico-sanitari alimentari (HACCP), marketing e chi più ne ha più ne metta. Cesvi collabora con molti soggetti del settore agroalimentare e del turismo: hotel (come il nostro), ristoranti, produttori di miele, di gliko, di formaggio, guide turistiche e quant’altro. Nel 2012 è nato il consorzio Pro Përmet che riunisce circa 35 produttori privati, ma anche la società civile e due comuni; è una sorta di marchio di origine geografica tipica e di qualità che protegge i prodotti locali e li rende più vendibili. Parallelamente si sta cercando di sviluppare dei GAL (Gruppi di Azione Locale), associazioni che promuovono il territorio attraverso fondi assegnati con bandi europei. Le attività possono essere cartellonistica, sagre, un po’ di tutto. Questo anche in previsione di un futuro ingresso dell’Albania nell’UE, che però allo stato attuale appare ancora lontano. In prospettiva Pro Përmet dovrebbe diventare un GAL. Già ora, comunque, si vedono cartelli che promuovono Përmet come città dei fiori e non solo. Lo slogan è “A parte il mare, tutto il resto ce l’abbiamo”.

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Giorgio ne ha di cose da raccontare, e ha voglia di raccontarle.
Italia e Germania sono i due paesi che investono di più in Albania. Quest’area, che è ancora povera, rimane vocata ad agricoltura e turismo. L’industria non riesce a svilupparsi, anche perché siamo lontano dalle principali rotte commerciali. La popolazione è ancora in diminuzione, i villaggi si spopolano (lo abbiamo visto a Benja), i giovani se vanno a fare l’università a Tirana non tornano più. Da qui l’intento di promuovere lo sviluppo. Sono processi lunghi, ma Giorgio dice che c’è fiducia che i risultati possano arrivare.
L’emigrazione è interna ma anche verso l’estero, non tanto Italia e Grecia come da tradizione ma ora più Germania, Gran Bretagna, anche Canada o Australia. Dove c’è bisogno di manodopera, a volte anche specializzata come medici o infermieri. C’è comunque ancora chi va a fare lavori stagionali in Grecia, in agricoltura o nel turismo.
In Albania il salario minimo netto è 20.000 lek, cioè circa 170 euro. Un insegnante può arrivare a prendere 350 euro al mese. Tanti hanno un doppio lavoro, soprattutto i giovani, o condividono un appartamento, altrimenti con l’affitto non ce la fanno. Un affitto minimo è sui 50 euro qui a Përmet, ma a Tirana si va dai 300 euro in su.
C’è curiosità anche per la storia personale di Giorgio, che non si fa pregare. Ha iniziato con gli aiuti ai Kosovari nel ‘99, all’epoca faceva l’università a Bologna (lui è di Fiorenzuola): conservazione dei beni culturali. È venuto in Albania a fare il volontario, con l’idea di rimanere due o tre mesi; poi gli hanno offerto un lavoro ed è rimasto due anni, perché lo hanno mandato nel Kosovo. Tornato a casa, è passato a scienze politiche. Ma poi lo hanno richiamato dall’Albania. È tornato ancora per stare tre mesi, con l’idea di riuscire anche a studiare, ma si è fermato per otto mesi, senza riuscire ad aprire libro. Poi di nuovo in Italia, e stavolta finalmente è riuscito a finire l’università. Subito sono arrivate due chiamate, una del sindacato e una del Cesvi. Ha scelto il sindacato ed è stato mandato nello Sri Lanka del post tsunami, per quasi un anno. Da lì ancora Albania con il Cesvi, Bosnia e ancora Albania, sempre con contratti a progetto. Oggi, a 41 anni, dovendo pensare anche ai genitori anziani a casa, preferisce rimanere qui a un’ora e mezza d’aereo da Bologna. O almeno – dice – finché dura sì, poi si vedrà. Di sicuro qui sembra molto inserito, parla anche albanese con disinvoltura.
Sollecitato sulla condizione della donna in Albania (era inevitabile toccare questo argomento, avendo nel gruppo delle “veterofemministe”…), dice che la situazione è in lento miglioramento, poi se la cava con una battuta citando un detto popolare di queste parti: “L’uomo albanese sta sull’asino e la donna albanese tira l’asino”. È ancora vero oggi, probabilmente.
Io sono curioso di sapere da lui come vede l’attuale situazione politica albanese. Poco fa abbiamo scherzato sulla situazione politica italiana, e sul fatto che da noi non è un momento di grande popolarità per le ONG. Ma anche qui, almeno vista da fuori, la situazione sembra quanto meno ingarbugliata. Il Partito Democratico (di centrodestra), all’opposizione dell’attuale governo socialista di Edi Rama, ha messo in atto una protesta plateale facendo dimettere tutti i suoi parlamentari, ma l’operazione è in parte fallita perché in molti casi sono subentrati i primi dei non eletti, dello stesso partito, che non se la sono sentita di rinunciare al seggio e allo stipendio da parlamentare. Intanto sempre il PD sta guidando manifestazioni di piazza che hanno anche, almeno apparentemente, un certo contenuto di violenza, con lanci di oggetti e “assalti” ai palazzi del potere. Le elezioni amministrative dello scorso 30 giugno, che a un certo punto sembravano destinate a saltare, si sono poi tenute, contro le indicazioni del Presidente della Repubblica, ma solo con i candidati socialisti che chiaramente hanno fatto man bassa. In tutto ciò, chiedo a Giorgio, il vostro lavoro come procede? È influenzato in qualche modo da questi fatti o pensate che lo sarà in futuro?
La sua risposta in parte mi sorprende, perché lui sembra molto tranquillo, ridimensiona il tutto dicendo che è finzione, le manifestazioni di piazza non sono così grandi come sembra e la violenza è solo simulata, la destra in realtà al momento è tagliata fuori e cerca visibilità perché non sa che pesci pigliare. Secondo lui il governo resterà in carica anche perché così vuole l’UE, e per l’Albania è troppo importante poter ancora sperare in una futura adesione. Inoltre, i funzionari governativi di adesso gli sembrano più competenti: anche se sono anche loro spesso corrotti e hanno ottenuto il posto in virtù di raccomandazioni del potente di turno, almeno hanno studiato, parlano inglese e conoscono le tecniche di comunicazione.
Anche alcune cose che sta facendo il governo concretamente sono positive, come il tentativo di ricostruire gli acquedotti per portare a tutti l’acqua 24 ore al giorno, come avveniva ai tempi di Hoxha. Ora in molte zone l’acqua arriva solo 3 ore al giorno. Ma è un lavoro lento e difficile, per questo tutti hanno la cisterna. Quello che ancora pesa è anche che è difficile ancora oggi togliere a certe persone la mentalità per cui deve essere qualcuno più in alto a provvedere per loro. I funzionari, dopo la caduta del regime, passavano le giornate al bar, e di questo tipo di mentalità ancora il paese un po’ risente.
Comunque, sono contento che lui veda nell’attuale situazione qualcosa di positivo. Così rinfrancato, mi avvio con il gruppo alla cena, che è in programma all’aperto al ristorante Antigonea, che è membro del consorzio Pro Përmet e del Convivium Slow Food locale e infatti offre, in chiusura, dell’ottimo gliko di melone.
Dopo cena e dopo una breve passeggiata, con Paola, Barbara e Laura andiamo come sempre in cerca di un buon bicchierino di raki. Il posto ce lo suggerisce Giorgio, che ha cenato anche lui all’Antigonea al tavolo vicino al nostro, in compagnia del giornalista Christian Elia, condirettore di Qcode Magazine, che con la fotografa Camilla De Maffei sta portando avanti il progetto “Albania, Viaggia a modo tuo: gestione multi-attore integrata del turismo rurale e culturale nelle regioni di Argirocastro e Berat”, promosso dal Cesvi.
Si chiama Funky Guesthouse e offre una bella varietà di raki. Noi ne assaggiamo tre: uno di moscato, uno di ginepro e uno di gelso (e così tra l’altro scopriamo che esistono anche raki non di vinaccia). Chi ci guida nella scelta è Avenir (nome strano, forse retaggio dell’epoca comunista), che con il papà gestisce questo locale, che hanno aperto tre anni fa. Si capisce subito che parla un ottimo inglese, e non è un caso: ha vissuto per parecchio tempo a Coventry, e infatti ha anche l’accento tipico delle midlands inglesi. La sua storia è interessante, gli chiediamo di passare qualche minuto con noi per raccontarcela. È cresciuto con i nonni in un piccolo villaggio qui vicino, ha fatto le scuole qui ma poi per l’università si è trasferito a Tirana. Studiava ingegneria ma la sua vera passione sarebbe stata fare il parrucchiere, così contemporaneamente ha fatto un corso anche per quello. Come tanti, a un certo punto ha deciso di cercare fortuna all’estero ed è andato in Inghilterra dove aveva dei parenti. Ma lì per fare il parrucchiere avrebbe dovuto accettare di lavorare per tre anni a salario minimo, perché il suo titolo albanese non era riconosciuto. Quindi ha trovato un lavoro da impiegato, ma era insoddisfatto, passare tutto il giorno davanti al PC non faceva per lui. Per di più c’era anche una certa nostalgia di casa e della famiglia, e così è tornato. Anche questo lo stanno facendo in tanti, negli ultimi tempi. Con quello che aveva guadagnato è riuscito ad aprire il locale e ora, a vederlo, sembra felice. Nel frattempo abbiamo imparato un’altra parola albanese fondamentale: gëzuar, alla salute!
Dopo il raki e questa piacevole chiacchierata ce ne torniamo in albergo, con una certa preoccupazione perché proprio mentre ce ne stavamo andando abbiamo visto in TV un servizio con un titolo inquietante che parlava di un “Atentat” a Tirana…

Mercoledì 28 agosto 2019

Per fortuna la nostra preoccupazione di ieri sera era figlia di un misunderstanding: abbiamo scoperto che in albanese atentat significa semplicemente omicidio, è una specie di “falso amico”. Si trattava, in realtà, solo di un banale episodio di cronaca nera, probabilmente un regolamento di conti nella criminalità locale.
Possiamo partire tranquilli verso Berat, che sarà la nostra prossima meta.
Ma prima di arrivarci, ci sono altre tappe fondamentali da fare.
La prima della giornata è presso una piccola fabbrica dove, a livello quasi artigianale, viene prodotto e confezionato il gliko del Convivium Slow Food. Qui avremo modo di saperne di più sulla ricetta, sulla preparazione… e di fare assaggi e acquisti.
Le signore che ce ne parlano sono tecnologhe alimentari, quindi non c’è solo un sapere tramandato da molte generazioni ma c’è anche chi è in grado di coniugarlo con le tecnologie di oggi senza snaturarlo. Questa struttura esisteva già nel periodo comunista ed è stata privatizzata nel ’92. Il gliko non si fa in un modo solo: o meglio, una parte della lavorazione è comune ma poi ogni frutta (o verdura, perché abbiamo scoperto che si fa anche con alcune verdure, tipo le melanzane) ha bisogno di un procedimento specifico. Adesso, per esempio, stanno facendo del gliko di prugna, quindi bisogna togliere il nocciolo e la buccia, lavare la frutta, poi la si tratta con latte di calce, che è una miscela di calce e acqua. Questo si fa con tutti i tipi di frutta, tranne l’anguria e la ciliegia, perché la polpa di questa frutta assorbe troppo la calce e diventa difficile eliminarla. L’immersione in latte di calce dura per un’ora e mezza e serve per rendere croccante il frutto. Si risciacqua più di dieci volte, poi si fa bollire e così la frutta perde le ultime tracce di calce. Poi si mette in una vasca di acqua fredda e si sciacqua di nuovo. Dopo di che la frutta, con zucchero e acqua, si fa bollire in un pentolone finché non ha assorbito tutto lo sciroppo (anche qui il tempo è variabile); a quel punto si può confezionare. Il gliko forse più tradizionale (anche se tutti lo sono) è quello che si fa con il mallo di noci, con le noci ancora verdi.

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Dopo aver comprato i nostri gliko preferiti (per me noci e arancia), possiamo ripartire. Ci aspetta un altro sito archeologico di grande importanza: Apollonia.
Apollonia fu fondata nel 588 a.C. dai coloni Greci di Kerkyra (odierna Corfù) e Corinto; fu probabilmente la più importante città tra quelle conosciute con il nome di Apollonia. Il luogo era già usato dai commercianti di Corinto e dai Taulanti, una tribù dell’Illiria. Sembra che il nome originale della città fosse Gylaceia dal suo fondatore, un certo Gylax, ma il nome fu poi modificato in onore del dio Apollo.
Aristotele considerò Apollonia come un importante esempio di oligarchia, poiché i discendenti dei coloni greci controllavano la città e la numerosa popolazione per la maggior parte di origine Illirica.
La città divenne ricca grazie al commercio degli schiavi e all’agricoltura, come pure il suo porto che si dice potesse contenere fino a 100 navi. Apollonia, come Dyrrachium poco più a nord, era un importante porto, il più vicino alla costa italica e a Brundusium, peraltro punto di partenza della Via Egnatia che conduceva fino a Thessaloniki e Byzantium in Tracia.
Il declino iniziò nel III secolo d.C. con il terremoto che scosse tutto l’Adriatico, a causa del quale il porto fu distrutto e le acque presero un’altra via. Allontanandosi il mare dalla città, la vita andò a spegnersi. Diversamente da Butrint, che fu abitata anche in era medievale, Apollonia nel medioevo fu un sito utilizzato solo a scopi religiosi, come monastero, dal XIII secolo.
Gli scavi cominciarono nel 1924. Qui furono i francesi, con Leon Rey, a portare alla luce i resti della città insieme all’albanese Hasan Ceka, che ha lavorato anche a Butrint. Il centro monumentale include alcuni monumenti importanti che ci parlano di diversi periodi: il periodo greco, quello di più grande splendore, nel quale la città era un centro di enorme importanza per il mondo di allora. Fu costruita la biblioteca, dove vennero a studiare grandi personalità dell’antichità, tra cui l’imperatore Augusto. Ebbene sì, molto tempo prima del Trota anche lui ha preso… la laurea in Albania, ma lui ci è venuto davvero e forse aveva anche un po’ di più la stoffa del leader, diciamo così. Poi arrivarono i romani, che “scoprirono” queste terre durante la guerra civile e le colonizzarono ma Augusto, come segno di gratitudine alla città che gli aveva dato la sapienza in politica e diplomazia, concesse ai cittadini di Apollonia lo status speciale di “cives romanus”. Potevano usare la loro lingua, la loro moneta e le loro leggi. La vita della città insomma non venne stravolta.
La città ha una struttura a raggiera, con le strade che portano verso il centro. Sulla collina c’è la porta sacra di Temenos, che portava al tempio, legato naturalmente alla figura del dio Apollo. Il tempio non è stato trovato durante gli scavi, quindi ci sono diverse teorie sulla sua collocazione. La più probabile è in cima alla collina, dove c’è una bella casa ora trasformata in un bar, costruita negli anni ’30 e che era nel periodo degli scavi la casa dell’archeologo francese Leon Rey.
Noi iniziamo dai resti dell’Arco di Trionfo, che è probabilmente l’ultimo monumento costruito nel centro monumentale. Ci sono le basi di quattro pilastri, per cui si trattava di un arco che poggiava su quattro colonne. Era posizionato al centro di un incrocio, in posizione obliqua in modo che fosse visibile da entrambe le strade. È stato associato con la visita dell’imperatore Caracalla, che era attesa nel 217 d.C. ma che poi non avvenne perché Caracalla fu assassinato durante il viaggio. È possibile che per questo sia rimasto incompiuto.
Il monumento più imponente è il Bouleuterion, o monumento degli Agonoteti, che ospitava l’assemblea cittadina in una sala da 160 persone. Aveva un portico d’ingresso in stile corinzio, preceduto da una scalinata monumentale, e una camera da pranzo. Sull’architrave un’iscrizione dedicatoria in greco menziona due fratelli che esercitavano la funzione di agonoteti (magistrati responsabili dell’organizzazione di feste ed eventi pubblici, anche musicali), da cui il nome. L’iscrizione dice anche che per l’inaugurazione si tenne un combattimento con 25 coppie di gladiatori. L’edificio data al II secolo d.C. e il restauro della facciata, con i blocchi di pietra trovati durante gli scavi degli anni ’30, fu eseguito tra il 1974 e il 1978. Si trova proprio di fronte all’Odeon, che era un teatro speciale ed è un caso unico in tutta quest’area geografica: Ha la forma di una conchiglia e poteva accogliere fino a 700 spettatori, ma soprattutto aveva un soffitto ed è quindi l’unico teatro coperto che sia stato ritrovato in quest’area. Qui si tenevano anche corsi di lezioni, dato che come sappiamo dai tempi di Ottaviano Augusto Apollonia era un importante centro accademico.

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I pilastri dell’Arco di Trionfo

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Il Bouleuterion

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L’Odeon

Il portico, costruito attorno al III secolo a.C., aveva una doppia funzione: sostenere la pendenza della collina e mettere in comunicazione il centro monumentale a sud con l’agorà a nord. La parete posteriore è punteggiata da 17 nicchie, perfettamente conservate, che erano decorate con statue di marmo.
Si possono vedere anche i resti di una cisterna della seconda metà del II secolo d.C. usata per lo stoccaggio di cibo, e un obelisco molto antico, risalente probabilmente al primo periodo della città e dedicato anch’esso al dio Apollo.
La visita termina con la chiesa di Santa Maria, del XIV secolo, e il museo.

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La chiesa di S. Maria

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Chiesa di S. Maria: l’iconostasi

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Ripartiamo verso Berat, con Reshat che come sempre appena può cerca di vivacizzare il viaggio con qualche pezzo della “sua” musica. Oggi ne tira fuori uno che scopriamo, grazie alla spiegazione di Nida, essere una sorta di inno calcistico: i tifosi albanesi ancora lo usano in riferimento a un episodio di qualche anno fa. Era il 2014 e a Belgrado si giocava Serbia-Albania per le qualificazioni agli europei, partita ovviamente a fortissimo rischio, tanto che ai tifosi ospiti era stato impedito di accedere allo stadio. Ma durante la partita, a un certo punto, un drone con una bandiera della Grande Albania inneggiante al Kosovo indipendente iniziò a sorvolare lo stadio, provocando la reazione di alcuni tifosi serbi che invasero il campo. L’arbitro sospese la partita, e in seguito all’Albania venne assegnata la vittoria a tavolino.
Arriviamo a Berat, dove ci sistemiamo in pieno centro all’hotel che curiosamente si chiama… Belgrad. Ha a che vedere con il fatto che anche Berat, come Belgrado, è chiamata “La città bianca”, perché bianche sono quasi tutte le case del centro storico. Belgrad, che nelle lingue slave significa appunto città bianca (bjelo grad), era il nome di Berat durante l’occupazione bulgara (XI secolo). Berat, che oggi ha 60.000 abitanti, è anche la città delle mille finestre, e anche di questo guardandosi intorno è facile capire il perché.
Dopo un po’ di relax, usciamo per la cena. Reshat ci porta col pullmino al castello, che è una vera e propria cittadella fortificata che domina la città da una collina alta 187 metri. Ma la cosa eccezionale è che tra le sue mura c’è vita, e vita intensa. Fino al XIII secolo la città era tutta qui, ma anche ora ci sono 10 chiese (delle 30 che c’erano nel medioevo), tante case storiche ma ancora abitate, e tanti locali.
È proprio in uno di questi che ci aspettano per la cena, come sempre ricca e godibile. Ma è soprattutto il dopo cena che regala sorprese. Il locale è attrezzato con una specie di sound system abbastanza artigianale ma potente, e il nostro Reshat è in grado di sfruttarlo al massimo per mandare musica tamarra (diciamolo pure) a tutto volume. A questo punto non possiamo non ballare, si offenderebbe. E anche a noi non dispiace l’idea… lui è così contento che per i primi minuti pensa solo a riprendere col telefonino, prima di buttarsi nella mischia anche lui. Eccovi qua uno dei video che ha girato, ovviamente sulle note della sua (e ormai anche la nostra) hit preferita…

Il proprietario del locale è un altro grande personaggio: mentre balliamo, Barbara esce a fumare e, già che c’è, cerca di prendere dei fichi da un albero che c’è proprio lì fuori, ma non ci riesce; il nostro amico, che è uscito anche lui a prendere una boccata d’aria, vuole prenderglieli lui e per questo si arrampica sull’albero… da come poi l’ha raccontata Barbara, sembra la scena di un film di un regista balcanico a scelta, fate voi.
Alla fine ci siamo divertiti molto. La serata è talmente bella che ci viene voglia di prolungarla e di prendere ancora un po’ d’aria fresca scendendo a piedi, mentre Reshat porta giù il pullmino. Così possiamo goderci anche meglio dall’alto e da varie angolazioni la Berat by night.
Giovedì 29 agosto 2019

Oggi mezza giornata abbondante sarà dedicata alla visita di Berat, che merita.
Purtroppo, nel frattempo, il virus che da qualche giorno sta girando nel gruppo continua a imperversare. Ora ha colpito anche Paola, che questa notte non è stata troppo bene e che quindi viene convinta a restare in albergo a riposare. Ormai cominciano a essere pochi quelli che si salvano (io per fortuna sono ancora tra questi) da quella che abbiamo soprannominato “la vendetta di Skanderbeg”.
Cominciamo il giro della città con la bella tekke Helveti. La costruzione risale alla seconda metà del XVIII secolo, sotto Ahmet Kurt Pascià. Al centro c’è la sala della preghiera (semahane), a sud si trova il mausoleo del pascià, a nord il portico. L’interno è riccamente decorato e spiccano molti intagli in legno, simili ad altri del periodo, usati soprattutto nelle case facoltose. Il soffitto è anch’esso in legno dipinto, con un disegno ottagonale al centro. Anche nell’area della balconata, dove i musicisti a volte sostavano durante le cerimonie religiose, ci sono pitture e iscrizioni.
Purtroppo la tekke e la vicina Moschea del Re sono entrambe in fase di restauro, quindi noi riusciamo a entrare chiedendo un favore agli operai che ci stanno lavorando ma siamo in una specie di cantiere e molte aree ci sono precluse; meglio di niente, comunque.
La Moschea del Re, altrimenti conosciuta come Moschea del sultano Bayazit, ha un aspetto molto diverso da come appariva originariamente alla fine del XV secolo. Dal 1832 al 1833, essendo in pericolo di crollo, subì una ricostruzione quasi totale con le tecniche dell’epoca. Della prima fase di costruzione sono rimaste solo le fondamenta del minareto. Gli interventi del XIX secolo aggiunsero un grande portico a nord. Anche qui c’è un bel soffitto in legno. Sei finestre illuminano l’interno della sala di preghiera. Il mihrab (che è la nicchia orientata verso la Mecca) si distingue per la bellezza artistica del bassorilievo. Sulla destra è collocato, su una rampa di scale, il minbar, il pulpito usato dai predicatori durante le celebrazioni religiose.

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La tekke Helveti

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La Moschea del Re – Foto Pudelek

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Il minbar della Moschea del Re

Saliamo di nuovo verso il castello, questa volta per visitare l’importante museo delle icone, dove sono state raccolte praticamente tutte le icone albanesi sfuggite ai saccheggi degli anni del caos.

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Il museo, intitolato al maestro Onufri, si trova nella Cattedrale della Dormizione di Santa Maria, uno dei monumenti più rappresentativi dell’architettura bizantina della città, ricostruita alla fine del XVIII secolo. È una basilica a tre navate arricchita da archi e cupole. Nel mezzo del pavimento in pietra si trova un mosaico del calendario solare che fornisce una mappa dell’universo allora conosciuto. Sul muro della navata a ovest vi è un loggione in legno costruito a mano, destinato ai musicisti o alla preghiera delle donne. L’altare conserva parti dell’affresco originale.
L’iconostasi realizzata in legno scolpito e rivestito in oro permette di ammirare le icone più famose di Onufri, del 1806. Onufri era il pittore più illustre del periodo post-bizantino e sulle sue origini esistono diverse tesi, perché sono scarse le notizie biografiche sulla prima parte della sua vita. Si sa che fu educato nella Repubblica di Venezia e membro della Confraternita greca di Venezia; diventò celebre per le sue icone di stile bizantino, ma anche per i ritratti, paesaggi e chiese.
Onufri dipinse soprattutto icone che esprimevano un forte senso di libertà e di resistenza all’invasore ottomano sia in senso nazionalistico sia in senso religioso. Prete ortodosso, si mise in evidenza e si distinse dagli artisti contemporanei per l’inserimento di elementi realistici nella staticità convenzionale dell’arte bizantina, quali paesaggi urbani e vedute campagnole, ma anche personaggi presi dalla realtà quotidiana.
Le sue opere presentarono influenze occidentali, rinascimentali italiane, veneziane ed europee, brillantemente miscelate col forte colorismo della pittura religiosa bizantina, che diedero al suo stile caratteristiche e forme personali. Le sue icone sono da molti considerate acheropite, cioè non create da mano umana ma ispirate direttamente da Dio, quindi sono venerate come reliquie.
Fondò anche una scuola per la pittura delle icone, i cui insegnamenti proseguirono dopo la sua morte grazie all’impegno del figlio Nicola e dei suoi seguaci Onufri Kiprioti e Konstantin Shpataraku.
In questa cattedrale furono nascosti i due famosi codici di Berat durante la seconda guerra mondiale. Parliamo di due codici antichissimi di grande importanza: il Codice Purpureo e il Codice Aureo.
Il Codice Purpureo è stato scritto nel VI secolo ed è uno dei vangeli più antichi al mondo. È scritto in color argento su una pergamena color porpora. 190 pagine e due vangeli: Luca e Marco.
Il Codice Aureo risale invece al IX-X secolo ed è uno dei libri liturgici più antichi al mondo. È scritto anch’esso su pergamena in lettere dorate. Comprende 420 pagine con miniature, ritratti e quattro vangeli.
Durante la seconda guerra mondiale, all’esercito tedesco fu ordinato di trovare e rubare i codici a qualunque costo. Ma il consiglio ecclesiastico li aveva nascosti sotto il pavimento dell’abside della cattedrale. I componenti del sinodo giurarono davanti all’icona di Santa Maria ai comandanti nazisti di non sapere dove fossero nascosti i codici, un falso giuramento di cui poi dovettero chiedere perdono alla Vergine. Ma così il tentativo di furto fallì, come erano falliti altri tentativi in passato. I codici furono ritrovati nel 1967 proprio lì dove erano stati nascosti, quando si pensava che fossero andati persi, e furono consegnati agli archivi di Stato, dove si trovano ancora oggi in una camera controllata, per preservare quello che è anche un patrimonio UNESCO.
L’icona della Dormizione è una delle più tradizionali ed è basata sul dogma per cui Maria non è mai morta, ma si è soltanto addormentata e la sua anima è stata assunta al cielo. Qui si vede rappresentato anche un ebreo che non credendo nella verginità di Maria voleva rovesciare la bara, ma un angelo con la spada gli ha tagliato di netto le mani: è un altro elemento tradizionale di questa icona nel mondo ortodosso.
Il museo è davvero interessante. Tra l’altro, il restauro di parte delle icone e dell’edificio è stato realizzato da ARCI Milano con il contributo di Regione Lombardia e Fondazione Cariplo tra il 2001 e il 2004.

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Cattedrale – Museo Onufri

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Ma non è tutto: vale la pena di vedere almeno due delle dieci chiese rimaste all’interno delle mura del castello, San Nicola e Santa Maria di Blaherna.
La chiesa di San Nicola, secondo un’iscrizione presente al suo interno, è del XVI secolo, ma vi sono prove di una chiesa preesistente. L’abside un tempo era divisa dalla navata da un’iconostasi in legno, le cui tracce sono ancora visibili. Gli affreschi sono ben preservati sia sulla parete nord che sulla parete sud, mentre quello dell’abside è danneggiato. Sulla parete nord, dove le scene sono ben visibili, l’affresco è diviso in tre parti: nella prima figurano l’arcangelo Michele, due generali bizantini, un santo con un libro in mano e la Trasfigurazione; nella seconda parte ci sono scene dei martiri della Chiesa e nella terza le stazioni della via crucis. Nella chiesa ci sono due frammenti architettonici dell’era paleocristiana: un pilastro e un capitello, quest’ultimo riadattato ad altare.

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Chiesa di San Nicola

La chiesa di Santa Maria di Blaherna è la chiesa più antica di Berat. La chiesa originale risale al XIII secolo. Inizialmente aveva la pianta a croce, con una cupola su una volta a botte che la sosteneva dall’interno, struttura tipica delle chiese bizantine. Nella seconda metà del XVI secolo, fu ricostruita come appare oggi, con un tetto a campana, e nel 1578 fu ridipinta da Nicolas Onufri. Gli affreschi della prima fila raffigurano i santi nelle loro proporzioni reali, la seconda mostra i martiri della Chiesa e la terza scene della vita di Gesù e apparizioni miracolose. Al centro del pavimento della navata c’è poi un mosaico solare molto interessante.
Nei pressi della chiesa c’è anche una gigantesca testa di Costantino, altra figura fondamentale per il mondo ortodosso: è considerato un santo, mentre la madre Elena è colei che trovò la croce di Cristo a Gerusalemme. Costantino nacque a Niš, nell’attuale Serbia, che allora era Illiria.

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Da qui si vedono bene anche i due monti Tomor e Shpirag, protagonisti di una leggenda popolare. Si narra che i due fratelli orchi Tomor e Shpirag si batterono per una bellissima fanciulla, il primo imbracciando la spada, il secondo una mazza ferrata. Dio, arrabbiato con i due, li trasformò in monti, così ora il monte Tomor è pieno di buchi, il monte Shpirag è segnato da profonde fenditure, come tagli di spada. Le lacrime di lei fecero nascere il fiume Osum.
Tomor è la montagna sacra per i Bektashi. C’è stato anticamente un tempio pagano, ora c’è una tekke dove le persone vanno in pellegrinaggio ogni anno dal 20 al 25 agosto ed è ritenuto in generale un luogo con una particolare e buona energia.

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Il monte Shpirag

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Chiesa della Santa Trinità

Scendendo di nuovo nel centro della città, ci resta da visitare il quartiere di Gorica, che si trova lungo il fiume Osum, nella parte bassa della collina incoronata in cima da una fortificazione del periodo preromano. L’aspetto architettonico attuale è frutto della ricostruzione dopo il terremoto del 1851. Nella parte alta le case sono più piccole, e appartenevano alla classe media. Le case della parte bassa, più grandi e dotate di veranda, erano invece di personaggi più altolocati. Il ponte ottomano di Gorica è da secoli un’importante connessione tra le due parti della città. La prima menzione di questo ponte risale al XVII secolo ed è del viaggiatore turco Evliah Çelebi, ma allora il ponte era fatto di travi di quercia su supporti di pietra. Il ponte di pietra fu costruito nel 1777 da Ahmet Kurt Pascià. Distrutto da un’inondazione nel 1880, subì diversi lavori di restauro e consolidamento strutturale fino ad arrivare a prendere la forma attuale nel 1930. È lungo 130 metri e ha nove arcate.

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Il ponte di Gorica

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Prima di lasciare Berat, abbiamo tempo solo per uno spuntino veloce a base di frutta e snack vari. Conviene stare leggeri, perché questa sera mangeremo abbastanza presto in un agriturismo: sarà un’altra cena ricca e lunga. Prima ci aspetta un lungo viaggio verso nord, stasera dormiremo a Scutari. Per fortuna Paola, dopo una mattinata di riposo, si sente già un po’ meglio, anche se non ha l’energia di ieri sera, quando si scatenava in balli “africani”.
Il viaggio diventa veramente lungo, perché andando a nord troviamo code di persone che sono venute dal Kosovo e dalla Macedonia a fare le vacanze in Albania e ora stanno tornando a casa.
Facciamo una breve sosta a Lezhë, antica città la cui fondazione risale al IV secolo a.C. (allora era una città greca e si chiamava Lissos), dove si può vedere la tomba di Skanderbeg. Più volte saccheggiata, è ospitata all’interno dei resti di una chiesa in rovina. La tomba è costituita da una semplice lastra in pietra con la copia di spada ed elmo (gli originali si trovano in un museo di Vienna). Nei pressi della chiesa vi sono resti di costruzioni di epoca romana.

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Il mausoleo di Skanderbeg

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Arriviamo all’agriturismo verso le 18, giusto in tempo per fare un breve giro su un curioso trenino turistico e poi sederci a tavola. Siamo da Altin, che gestisce questo grande agriturismo che è tra i più noti del paese. Lo si capisce anche da quanta gente c’è e dal fatto che per cenare si fanno i turni: il primo, che facciamo noi, inizia alle 18.30-19, il secondo tra le 21 e le 21.30. Nel villaggio ci sono circa 300 famiglie, che vivono qui e che forniscono la cucina del ristorante con prodotti locali a km zero ogni giorno. “Think globally, eat locally” è il suo motto.

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Foto di Laura Cibraro

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In effetti la cena è buona, anche se il posto è talmente grande da risultare un ambiente forse un po’ meno caldo e accogliente di altri posti dove siamo stati. La consueta sventagliata di antipasti, anatra, spiedini di maiale e di capretto, vari assaggi di dolci tra cui un gelato alla rosa dentro una “bolla” di zucchero rosa.

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Come riutilizzare un “fungo”

Dopo cena, si riparte verso Scutari, che ormai è poco distante. Arriviamo piuttosto tardi, ovviamente, ma dopo aver buttato velocemente le nostre cose nelle camere dell’Hotel Promenade io e alcuni dei miei soliti compagni di bevute non rinunciamo a una prima passeggiata nelle vie pedonali del centro e chiaramente a un raki. Quattro o cinque cani ci “accolgono” e ci seguono, tutti col loro bravo orecchio “microchippato”, a dimostrare che non sono randagi o se lo sono sono comunque controllati e identificati. Sono allegri e giocherelloni, ma quando diventano un po’ troppo insistenti ci pensa Nida, che comanda anche con loro, un po’ come con noi.

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(TO BE CONTINUED…)