Viaggio nell’Albania stretta tra un passato che fatica a passare del tutto e un futuro che tarda ad arrivare. Un paese vicino ma sconosciuto, aspro ma con sprazzi di inaspettata dolcezza – Con Radio Popolare e ViaggieMiraggi
Capitolo 5: Scutari e Kruja
Venerdì 30 agosto 2019
Oggi siamo a Scutari, che sarà l’unica tappa che faremo nel nord dell’Albania, ed è anche ormai l’ultimo giorno di viaggio, anche se domani, prima di raggiungere l’aeroporto di Tirana nel pomeriggio, passeremo la mattinata a Kruja. Ma bando alle tristezze, ci aspetta ancora una giornata piena, che inizia con la visita alla Fortezza di Rozafa, forse il modo migliore per entrare nella storia della città.
Scutari, in albanese Shkodra, ha circa 135.000 abitanti. Da sempre considerata la capitale della cultura albanese e un tempo capitale dell’Illiria, fu conquistata dai romani nel 168 a.C., poi passò nelle mani degli slavi, dei veneziani e degli ottomani. Dopo essere stata attaccata dai montenegrini, conquistata dagli austriaci e occupata dai fascisti italiani, negli anni ’90 fu una delle prime città a ribellarsi contro il regime comunista.
Tutto questo è inciso nelle pietre della sua fortezza, dalla quale si domina una vallata dove confluiscono i fiumi Drin, Buna e Kir, nelle vicinanze delle Alpi dinariche. Si dice che questo è il posto dove si “baciano” tre fiumi.
Il colle dove sorge la fortezza risulta abitato fin dall’Età del Bronzo. Divenuto fulcro dell’insediamento di Scodra, nel II secolo a.C. era abitato dalla tribù illirica degli Ardiei. Le prime mura, delle quali rimane pochissimo, erano state innalzate direttamente sulla roccia calcarea del colle.
Lo splendore del castello è da far risalire al medioevo, quando tutte le principali città d’Albania avevano una famiglia nobile a dominarle. Anche qui il castello venne rinnovato e ulteriormente fortificato.
Nel XV secolo la fortezza subì importanti lavori di restauro e ingrandimento da parte degli architetti veneziani Andrea Venier, Francesco Venier e Melchiorre da Imola. Il 15 luglio 1474 il castello di Rozafa venne assediato dai Turchi che tuttavia, a causa dell’accanita resistenza della guarnigione veneziana comandata da Antonio Loredan, furono costretti alla ritirata. Quattro anni più tardi, caduta la roccaforte albanese di Croia (Kruja), gli Ottomani cinsero nuovamente d’assedio Scutari. Nonostante la resistenza dei veneziani, il 25 gennaio 1479 le truppe della Serenissima furono costrette ad abbandonare la fortezza e a consegnare Scutari ai Turchi.
Ma anche dopo la conquista, quando Scutari divenne un sangiaccato ottomano relativamente autonomo, i legami commerciali con Venezia non diminuirono. Come ha scritto Paolo Rumiz, “La Serenissima combatté gli ottomani, ma li sentì cugini del Levante. Vent’anni prima di Lepanto, il doge Andrea Gritti sostenne per tre giorni e tre notti in senato la causa del dialogo con i musulmani”; e nel 1571, anno della grande battaglia, Venezia continuò a tenere aperto il fondaco dei turchi, l’albergo riservato ai mercanti che viaggiavano lungo le coste del Mediterraneo: “In mare ci si scannava, ma il commercio faceva la sua strada”.
Il castello di Rozafa ha una pianta ellittica ed è formato da tre cinte di mura differenti. All’interno del complesso della fortezza sono presenti i resti della chiesa di Santo Stefano. Dopo l’occupazione ottomana di Scutari il castello venne trasformato in una base militare e la chiesa venne convertita in una moschea, la Moschea di Sultan Fatih (Mehmet II), in memoria del Sultano che occupò Scutari. Venne perciò distrutta parte del campanile, che divenne un minareto, e l’abside fu trasformata in un mihràb.
Anche la fortezza di Rozafa, luogo simbolo e identitario, ha il suo mito, ci racconta Nida. La leggenda, riportata anche da Ivo Andrić ne Il ponte sulla Drina, narra di tre fratelli costruttori a cui era stato ordinato di innalzare la fortezza. Ma una maledizione faceva sì che, come la tela di Penelope, tutto ciò che costruivano durante il giorno venisse distrutto la notte. Andarono a chiedere consiglio al più anziano del villaggio, il quale disse che era la natura che chiedeva un sacrificio, e la vittima sacrificale doveva essere una delle donne della famiglia. “Tanto per cambiare” – commentano le donne del gruppo. Ma Nida dice che, guardandola da un altro punto di vista, significa che alle fondamenta della società c’è sempre la donna, non l’uomo. Chi era scelto per essere sacrificato era la persona più degna, più pura. Non tutte sono convinte, ma andiamo avanti. I tre fratelli, capito che non c’era via di scampo, decisero di non dire niente alle proprie mogli e fare in modo che la scelta fosse dettata dal caso, ovvero dal volere divino: la prima delle tre che fosse venuta a portare il pranzo sarebbe stata la prescelta. La moglie del più giovane, Rosa, aveva un bambino piccolo. E il più giovane fu l’unico a rispettare il patto, tradito dagli altri fratelli, che invece avevano avvertito le loro mogli. Rosa, con dignità e coraggio, accettò di essere sacrificata ma pose le sue condizioni: potevano murarla viva, come aveva detto il vecchio, ma dovevano lasciarle fuori l’occhio destro, per vedere suo figlio crescere, il braccio destro per accarezzarlo, il seno destro per allattarlo e il piede destro per muovere la culla. Così fecero, e l’acqua che sgorga ancora oggi da un muro del castello si crede sia la rappresentazione di quel latte sacrificale.

Scutari dalla fortezza di Rozafa
Lasciata la fortezza, ci dirigiamo verso le sponde del lago di Scutari, il lago più grande della penisola balcanica, un immenso specchio d’acqua di 368 km2 diviso tra Albania e Montenegro. Percorriamo una strada che lo costeggia e ci fermiamo in un bar con una terrazza che dà sulla spiaggia. Si può fare il bagno volendo, ma oggi l’acqua non appare particolarmente invitante e infatti c’è solo una coppia di bagnanti. Preferiamo bere una birretta e rilassarci un po’ prima di prendere la via del ritorno in città.
Il pranzo è libero. Con un gruppetto abbastanza nutrito, decidiamo di mangiare solo un gelato per avere più tempo per esplorare la città in autonomia prima dell’appuntamento fissato per le visite in gruppo del pomeriggio.
La zona pedonale fiancheggiata dalle case borghesi del centro, ricordo del ricco passato della città, è piacevole, ma ha probabilmente poco a che vedere con quello che c’è intorno alla città, con il mondo a parte che è l’Albania delle montagne del nord, un mondo che potremo solo sfiorare. Queste montagne hanno affascinato in passato tanti viaggiatori europei, e ancora oggi attirano chi vuole, senza andare lontano, fare qualcosa che assomiglia a un viaggio nel tempo.
Ancora oggi su queste montagne si possono trovare, ormai anziane, le ultime burnesh, le “maschie”, le vergini giurate. Quelle ragazze che, fino a una trentina d’anni fa, sceglievano di “diventare” uomo senza fare nessuna operazione o nessuna terapia ormonale, solo per poter essere capifamiglia; succedeva quando in casa rimanevano solo donne. Era una scelta solo in parte, in realtà. Nella società di allora, una casa senza un uomo era una casa senza una guida, senza un punto di riferimento: una famiglia allo sbando. La ragazza indossava abiti maschili, si tagliava i capelli e si comportava come gli uomini del villaggio: andava con loro in moschea o in chiesa (qui, oltre agli ortodossi, c’è anche una forte presenza di cattolici), beveva raki e fumava in loro compagnia incrociando le gambe sui tappeti dei salotti nei pomeriggi d’inverno. In casa queste donne erano rispettate come capifamiglia, e fuori lo erano allo stesso modo. La convenzione prevedeva che anche gli altri abitanti del villaggio dimenticassero la loro natura femminile, la cancellassero dalla loro mente, che non facessero alcun cenno al loro sesso, neppure nella maniera più velata. Erano maschi per la madre, per le sorelle, per tutti. Non dovevano neanche fare il militare, perché i comunisti tolleravano questo residuo del passato medievale quasi con disprezzo: non chiedevano o imponevano nulla, semplicemente ignoravano queste persone abbandonandole al loro destino di una vita di umile lavoro e di privazioni. È quello che si vede nel film “La vergine giurata” (2015) di Laura Bispuri con Alba Rohrwacher.
E sempre su queste montagne, ancora nei primi anni duemila, vigeva l’antica legge chiamata kanun, la legge di Lek Dukagjin che consentiva in caso di omicidio la vendetta su tutti i maschi della famiglia dell’assassino. C’erano persone che vivevano da prigionieri in casa perché il kanun garantiva l’incolumità solo nel perimetro domestico, cortile compreso. Se si azzardavano a mettere la testa fuori, da qualche parte poteva partire un colpo di fucile, o in tempi più moderni di kalashnikov. Lek Dukagjin era un principe contemporaneo di Skanderbeg: i due si alleavano in vista delle battaglie contro i turchi, ma rivaleggiavano tra loro quando le armate del sultano erano lontane. Dukagjin, al contrario di Skanderbeg, rimase sconosciuto all’Europa ma nel 1400 diede alle tribù delle aspre montagne del nord un codice d’onore semplice e terribile che ha passato la soglia del duemila. Prevedeva la besa, il rispetto della parola data, stabiliva la sacralità dell’ospite; e regolava rigorosamente la faida.

Foto di Laura Cibraro
Il nostro pomeriggio insieme a Scutari comincia con la visita alla fototeca Marubi, un archivio fotografico dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco che raccoglie scatti di più di un secolo di storia cittadina.
Tutto inizia nel 1856. Pietro Marrubi, un garibaldino di Piacenza che a causa della sua attività politica è costretto a lasciare l’Italia e prendere la strada dell’esilio, termina il suo lungo peregrinare a Scutari dove cambia il proprio nome in Pjetër Marubi e dopo un paio d’anni apre il primo atelier fotografico cittadino che nel corso dei decenni affianca ai servizi privati (ritratti di persone o famiglie) veri e propri reportage commissionati da riviste italiane o albanesi. Lo studio raggiunge il suo apice negli anni venti del ‘900, quando il nipote Gegë Marubi, fresco di diploma conseguito a Parigi presso lo studio dei fratelli Lumiere, applica le tecniche più moderne dell’epoca utilizzando raggi infrarossi, solarizzazione e foto in rilievo.
Le foto in mostra rappresentano una testimonianza unica della società albanese dalla fine dell’ottocento lungo tutto il ventesimo secolo, non solo gli strati benestanti e cittadini ma anche le comunità di pastori delle zone remote di montagna, i loro usi, costumi e riti. L’archivio ha anche “fermato” i passaggi della storia di questa regione. In una foto si vede un uomo issare la bandiera albanese in cima alla fortezza di Rozafa: siamo nel 1914, anno dell’indipendenza di questa parte dell’Albania.
Dopo il museo Marubi è il momento di guardare più da vicino i luoghi simbolici delle tre religioni della città: qui il mosaico religioso è ancora più completo, perché ai musulmani e agli ortodossi si aggiungono i cattolici, la cui presenza è importante in tutto il nord.
Si parte con l’imponente Cattedrale ortodossa della Natività di Gesù, completata nel 2000 presso il sito dove sorgeva già una chiesa di legno danneggiata seriamente da un attentato nell’agosto del 1998. L’attuale edificio in pietra è costituito da una grande navata con varie cupole e una torre campanaria separata dal corpo principale.

La Cattedrale ortodossa
Poi è la volta della moschea Ebu Beker, una delle più grandi del paese. Costruita ad opera di architetti turchi e albanesi, può accogliere fino a 1500 persone. La grande sala di preghiera è per gli uomini, mentre la parte superiore come sempre è riservata alle donne, che hanno anche un ingresso separato. Le decorazioni sono motivi calligrafici con brani del Corano. Qui nel XV secolo sorgeva un’altra moschea ottomana, successivamente distrutta e poi ricostruita più grande nell’epoca postcomunista. Le preghiere giornaliere sono cinque, ma solo il venerdì l’imam legge e interpreta il Corano.

La moschea Ebu Beker
E per finire la chiesa cattolica francescana, costruita nel 1905. Scutari è il centro albanese con il maggior numero di fedeli cattolici. Qui si trovano rappresentanti di tutti i principali ordini di frati e di suore. Ed è anche la città che ha subito più persecuzioni religiose durante il regime comunista. Quando venne dichiarato lo stato ateo, la guerra più feroce fu fatta proprio contro i sacerdoti cattolici. Le forze dell’ordine entrarono in questa chiesa durante la notte e nascosero delle armi sotto l’altare. La domenica, durante la messa, i poliziotti entrarono di nuovo in forze e dichiararono di avere informazioni secondo cui i preti stavano complottando contro lo Stato. Tirarono fuori le armi nascoste in precedenza, tra lo stupore dei fedeli, e arrestarono numerosi preti che ora sono considerati martiri, perché poi vennero fucilati in massa dopo un processo sommario. L’esecuzione pubblica, naturalmente, voleva essere di monito ai fedeli cattolici; dovevano sapere che se avessero continuato a professare la religione avrebbero potuto fare la stessa fine. La chiesa venne poi ristrutturata e trasformata in sala giochi e cinema. Nelle nicchie, tuttavia, sono ancora visibili tracce degli affreschi originali. In una nicchia segnata da una semplice croce e dalla bandiera albanese si trovano le reliquie di padre Gjergj Fishta, un poeta, politico, traduttore e frate francescano albanese morto qui nel 1940. Anche i suoi resti erano stati ovviamente rimossi nel 1967, e sono poi tornati al loro posto soltanto nel 1996.

La chiesa francescana

I martiri della chiesa francescana di Scutari
Un altro luogo fortemente simbolico per i cattolici è il Santuario dedicato alla Madonna del Buon Consiglio, che sorge su un lembo di terra stretto tra la strada, il fiume e la rupe del Castello. Costruito nel sesto secolo, fu distrutto la prima volta dalle orde ottomane. Riedificato, fu nuovamente raso al suolo dal regime comunista di Enver Hoxha. Dopo la caduta del regime, papa Giovanni Paolo II venne qui a benedire la prima pietra della ricostruzione. Il santuario custodiva una venerata icona della Madonna del Buon Consiglio, dove Maria è raffigurata con espressione dolce e malinconica mentre il bambino accosta il capo alla guancia della Madre, con il braccio le cinge il collo e con la mano si aggrappa all’orlo del suo vestito. Durante l’assedio dei musulmani a Scutari nel 1467 la tradizione vuole che l’icona si sia staccata miracolosamente dal muro della chiesa e sia stata portata in volo da un gruppo di angeli al di là del mare Adriatico, in Italia. Due soldati di Skanderbeg a lei devoti videro la sacra immagine volare sorretta dagli angeli e si fecero pellegrini per seguirla, attraversando il mare Adriatico a piedi.
L’episodio del volo dell’Icona è attestato in numerose opere d’arte albanesi e italiane. Un affresco nella calotta dell’abside della cattedrale cattolica di Scutari riproduce la città con il ponte medievale sul fiume, la rupe del castello di Rozafa e il profilo del santuario: i due pellegrini salutano l’icona portata dagli angeli e la seguono con un lungo viaggio via mare.

Monumento a Madre Teresa
Terminata la parte “seria” del pomeriggio, possiamo dedicarci a un momento più ludico, anche se comunque all’insegna dell’impegno sociale: la nostra Paola ha scovato l’Eko Mendje Club, un locale aperto da poco che unisce l’amore per la bici (e infatti sono varie le bici appese a decorarne il dehors) con quello per la letteratura e con varie attività sociali e di volontariato. È davvero perfetto per lei, sarà sicuramente presto oggetto di un servizio a “Cosa ne bici”. Ma tutta la città di Scutari, a dire il vero, è caratterizzata dalla presenza di biciclette, è sicuramente “la” città delle bici in Albania. Perché? Questa è la prima domanda che Paola fa a uno dei ragazzi che gestiscono il locale. È una tradizione, forse perché è una città pianeggiante, senza grandi rilievi. Fatto sta che qui ci sono più o meno tre bici per famiglia, e il primo regalo per un bambino, quando compie quattro o cinque anni, è sempre una bici. C’è chi dice che tutto risalga alla figlia dell’ambasciatore d’Ungheria, che fu la prima a portare una bicicletta a Scutari (e anche in Albania). Si dice anche che quando la portò in montagna le persone, che non avevano mai visto una bici, pensarono che fosse uno strano animale e cercarono di darle dell’erba da mangiare.
Il locale è molto piacevole, pieno di libri, coloratissimo, arredato in maniera creativa e con diversi oggetti ricavati da materiali riciclati. Qui si tengono anche dei “Poetry Slam” di poesia improvvisata nel dialetto locale, insieme a tante altre iniziative culturali. I ragazzi poi fanno volontariato in case di riposo, orfanotrofi, con i senzatetto, curano la pulizia dei parchi… e ovviamente organizzano gite in bici; insomma, fanno davvero tanto.

L’Eko Mendje Club
Per cena siamo a Vila Bekteshi, dove con un pizzico di malinconia da fine viaggio salutiamo Nida, che ci annuncia che domani non sarà con noi. Ha ricevuto una chiamata inaspettata dalla sua agenzia, deve tornare stanotte stessa a Tirana e ripartire domani mattina prestissimo per Atene, dove andrà ad accogliere un gruppo di inglesi che accompagnerà in un tour Grecia + Albania. Ma, efficiente come sempre, ha già trovato una sostituta: ci presenta Angjelika, che domani si incaricherà di portarci a Kruja e poi all’aeroporto.
Ci gustiamo una zuppa, una buona trota e un dolce a base di pan di spagna e latte, con uno strato di caramello. Poi viene veramente il momento dei saluti; Nida dice che sarà difficile trovare altri “soggetti” come noi, e sicuramente ha ragione. Baci, abbracci, qualche nota di un concerto di jazz in piazza, un ultimo raki e la serata è passata.
Sabato 31 agosto 2019
Per la prima volta in questo viaggio ho sentito il canto del muezzin alle 5 del mattino, il che significa che non ho dormito così bene, forse perché oggi è davvero l’ultimo giorno… o forse siamo solo vicini alla moschea.
Colazione, si sale sul pullmino e si parte. Non c’è Nida ma c’è Reshat, che resterà con noi anche oggi.
E poi c’è la bionda Angjelika, che è molto professionale ma all’inizio sembra un po’ “freddina”, forse perché viene spontaneo paragonarla con Nida, ormai eravamo abituati alla sua vivacità, al suo piglio deciso e al suo senso dell’umorismo. Ma in realtà dobbiamo solo prendere un po’ di confidenza, dopo di che anche Angjelika si scioglie abbastanza. Parla anche lei un buon italiano, solo che ogni tanto ci mette una parola in spagnolo… sorridendo si scusa e spiega che ha appena finito un tour con un gruppo di spagnoli; ma per noi non è un problema.
Mentre ci dirigiamo verso Kruja, scopriamo così una curiosità che ancora ci mancava: come nasce la parola Albania, che non ha niente a che vedere con la parola albanese Shqipëria? Bè, anticamente gli italiani chiamavano gli albanesi così perché venivano dall’alba, cioè da oriente. Qui vicino c’è Albanopolis, che era una città dell’antica Illiria, la città degli Albani, una tribù illirica. Le rovine della città antica localizzano Albanopolis nell’odierno villaggio di Zgërdhesh, anche se la corrispondenza non è del tutto certa.
A Kruja c’è una grande statua di Skanderbeg, che ci ricorda che questa è la città natale dell’eroe nazionale albanese. Noi visitiamo l’interessante museo etnografico allestito in un’antica casa ottomana all’interno delle mura del castello. Vi sono raccolti oggetti provenienti prevalentemente dalla città o dai suoi dintorni. Al piano terra alcune stanze illustrano i mestieri tradizionali: l’officina del fabbro, la conceria, la tessitura, il torchio, il frantoio. Al piano di sopra, invece, sono ricostruiti gli ambienti della casa di una famiglia ottomana.
Si può vedere anche come si fa il raki, che è ovviamente un’altra tradizione antichissima. In Albania per i più “tradizionalisti” il raki è anche una medicina, con la quale si può curare un po’ tutto. Quindici giorni dura la fermentazione, quindici ore si aspetta per la fase finale della distillazione, bastano meno di quindici secondi per berlo.
Una sala è dedicata, almeno in parte, agli strumenti musicali a corda, che si pensa siano arrivati in Albania con gli ottomani più di 500 anni fa. Gli albanesi li hanno poi adattati al loro stile musicale, creando così la çiftelia (o qifteli), un tipico strumento a corda pizzicata, utilizzato di solito nella musica popolare, ma non disprezzato anche nella musica moderna; caratteristica peculiare di questo strumento è la presenza di sole due corde. Strumenti simili sono reperibili in Turchia, in Macedonia, in Bulgaria e in Croazia; viene suonata soprattutto dal popolo dei Gheg del nord Albania e del Kosovo, che spesso la utilizzano nei matrimoni, oppure per accompagnare poesie e ballate. C’è anche un altro strumento simile al mandolino fatto con un carapace di tartaruga.

Angjelika
Un altro oggetto strano e curioso è quello che si usa per preparare il kadaif, un dolce della tradizione ottomana (si trova in tutti i Balcani, in Grecia e ovviamente in Turchia): l’aggeggio serve per fare uscire la pasta fillo in fili molto fini, come capelli d’angelo. La si lascia asciugare, poi si aggiunge la frutta secca, si avvolge il tutto e si mette a cuocere in forno. Dopo la cottura si aggiunge uno sciroppo di zucchero (proporzione: per 2 litri d’acqua, 1 kg di zucchero) ed è fatta: maneggiare con cura, è una bomba calorica.

Kadaif
Non mancano ovviamente vestiti e gioielli tradizionali albanesi, anche d’epoca. L’abito più caratteristico delle donne cattoliche del nord dell’Albania è la xhubleta, che sembra sia di origine illirica ed è ancora talvolta usata nelle cerimonie tradizionali nei villaggi, a volte anche per i matrimoni. La sua importanza è tale che è in corso la pratica per ottenere la qualifica di patrimonio Unesco. La gonna è ondulata,
di forma a campana. È di lana finemente ricamata e può pesare fino a 20-25 kg (la cintura da sola pesa da 5 a 10 kg). Si porta con una camicia bianca.

Donna con xhubleta in una foto di Marubi
Per gli uomini c’è la fustanella, che è un gonnellino maschile, pieghettato e molto svasato, tipico del costume tradizionale albanese. Angjelika dice che sono pochi i popoli che hanno come abito tradizionale maschile una gonna: solo gli illirici, gli scozzesi e i maori.
Il bazar restaurato è parte di un progetto comunitario ed è ricco di negozi di souvenir che vendono di tutto, comprese autentiche antichità. Nei laboratori si può imparare come funziona un telaio a mano o scoprire il processo di fabbricazione dei tappeti, o del qeleshe, il tradizionale copricapo in feltro albanese, che può essere di forma ovoidale, o fatto come un fez, a volte più basso e piatto. La lana viene lavata, stirata, lavorata e poi si dà la forma al cappello con l’aiuto di uno stampo, lo si rasa e lo si “pettina” finché non è perfetto. È un lavoro artigianale che, fatto a mano in questo modo, può richiedere anche diverse ore.

Qeleshe
Un giro nel bazar e un panino veloce, poi dobbiamo andare all’aeroporto, non c’è più tempo. Dobbiamo salutare anche Reshat, e lo facciamo così, quale modo migliore? Non vi sto neanche a dire che pezzo è…
È venuto anche per me il momento di salutare voi che avete avuto la pazienza di seguirmi fin qui. È stato un viaggio pieno di suggestioni, in un paese che pur essendo così vicino è tutto da scoprire. Abbiamo scoperto molte cose, ci restano come sempre tante domande ma i viaggi sono fatti per questo, non per dare certezze. La grande domanda è quella che ho voluto dare come titolo a questo racconto: Dove volano le aquile, cioè dove va questo paese? Difficile da dire, anche perché le aquile non le abbiamo viste, con grande disappunto di Laura. Il passato continua a pesare, non solo quello comunista (che anzi, abbiamo scoperto, qualcuno quasi rimpiange, almeno per certi aspetti) ma anche gli “anni del caos”, che hanno lasciato segni altrettanto profondi. L’Europa sembra ancora lontana, da qui.
Ma ci sono anche motivi di speranza, preferisco vedere quelli; c’è un popolo molto diverso da come se lo immagina chi vive di stereotipi. Un popolo fatto di gente orgogliosa, che sa soffrire e che non ha paura di niente; che è andata ovunque nel mondo, ma già da qualche anno sta cominciando a tornare. Se si creeranno le condizioni perché le ricchezze naturali e culturali possano essere valorizzate, in modo che i giovani aquilotti possano rimanere e non debbano andare via per spiccare il volo, allora il futuro dell’Albania sarà finalmente meno incerto.
Grazie come sempre a Radio Popolare, in particolare a Paola Piacentini, e a ViaggieMiraggi.
Grazie a Nida e anche ad Angjelika, che ci ha accompagnato per un giorno solo. Grazie al grande Reshat, che è stato il nostro autista ma anche DJ e fornitore di raki casalingo.
Grazie a Laura alla quale (col suo permesso) ho rubacchiato qualche foto, e grazie infinite a tutte le compagne e tutti i compagni di viaggio.