Viaggio nella Sicilia sudorientale alla scoperta di un ricchissimo patrimonio naturalistico, archeologico, artistico e culturale, senza dimenticare quello gastronomico, perché qui più che mai il cibo è cultura…
Con ViaggieMiraggi
Prologo
È arrivata l’estate. Un’estate che per mesi ci è apparsa lontanissima, tra il miraggio e l’incubo. Ci siamo immaginati ancora chiusi in casa, l’uscita per la spesa (e magari il giornale), da allungare il più possibile, come unico orizzonte, o al più in spiaggia a prendere il sole inscatolati in teche di plexiglass e sorvegliati da vigilantes attenti a captare e regolare ogni nostra più piccola mossa. Poi tutte queste distopie sono pian piano svanite, anche perché molte erano delle solenni idiozie (si può dire?), e ci siamo ritrovati con un’estate che, compatibilmente con le finanze disastrate di molti (troppi), ci veniva data la possibilità in qualche modo di vivere, pur tra le molte limitazioni rimaste, soprattutto per i viaggi, in particolare quelli all’estero.
Io, come tanti, mi sono trovato per ragioni varie a decidere abbastanza all’ultimo il da farsi e così, quando ho visto questa proposta di ViaggieMiraggi, di cui da poco sono anche socio, mi è tornato in mente da quanto tempo volevo tornare in Sicilia… per di più era una parte della Sicilia che avevo ingiustamente trascurato, e allora ho deciso: era quello che faceva per me. Posso dirvi fin d’ora che non me ne sono assolutamente pentito. Ma lo scoprirete se avrete la pazienza di leggere oltre.
Non vorrei, però, che presentandola così sembrasse un ripiego: non lo è. Un viaggio in una terra così ricca di tutto ciò che si può desiderare non può essere mai un ripiego. È semplicemente la scelta giusta al momento giusto, è trarre il massimo dalle condizioni che in parte ci sono imposte, in parte sono comunque frutto di una scelta, quella della responsabilità, che in questo periodo è più che mai necessaria.
È con questi pensieri in testa che arrivo all’appuntamento col gruppo, che è intorno all’una all’aeroporto di Catania. Io e altri due componenti del gruppo, Elisabetta che vive vicino a Varese (ma è di origine emiliana e ha vissuto a lungo a Bolzano) e Alessandro da Genova, abbiamo preso lo stesso volo da Milano Malpensa; qui abbiamo incontrato gli altri, e cioè Federica e Vittorio da Verona, Vera da Roma (anche se la sua vita è divisa tra Roma e Milano), Roberto da Ottaviano (NA). Ad accompagnarci per ViaggieMiraggi c’è Giulio, che conosco da un po’ e con il quale ho in comune un meraviglioso viaggio in Messico, nel Chiapas. Lui è marchigiano, ma di origine casertana, e vive a Padova, quindi anche lui contribuisce al mix di provenienze che fa di questo gruppo un gruppo rappresentativo di varie zone d’Italia.
Catania ci accoglie in una giornata calda, ma forse non quanto ci si poteva aspettare, e con un cielo in parte coperto. L’appuntamento, in realtà, non è propriamente all’aeroporto ma sul pullman AST che ci porterà a Modica, dove faremo base; sì, perché il resto del gruppo si trova già a Catania, essendo gli altri arrivati con voli (o treni) precedenti. Quindi loro, e con loro Giulio, hanno preso il pullman dalla stazione di Catania, mentre noi “milanesi” saliremo alla fermata dell’aeroporto alle 13.45 (per fortuna la linea Catania-Modica passa dall’aeroporto di Fontanarossa). Nell’attesa alla fermata non posso fare a meno di notare i grandi cartelloni che pubblicizzano le attrazioni turistiche siciliane un po’ in tutte le principali lingue e anche in russo… certo che quest’anno di turisti russi (in genere danarosi e piuttosto spendaccioni) ma in generale stranieri ne verranno pochi, e l’economia dell’isola, come peraltro quella del resto d’Italia, ne risentirà.
Saliamo sul pullman: mascherina obbligatoria per tutti ma è piuttosto pieno, quindi il distanziamento, sociale o fisico che lo si voglia chiamare, non è molto praticabile. L’orologio del pullman è indietro di tre ore e mezza, il termometro segna 0°C: è evidente che non è su questo che possiamo fare affidamento per sapere la temperatura esterna reale, ma la sensazione è che ora il sole stia iniziando a picchiare duro.
Il viaggio dura circa due ore; ci dirigiamo verso il profondo sud della Sicilia orientale. Giulio mi racconta che, quando è andato a fare i biglietti, l’impiegato della società di trasporti AST gli ha “sconsigliato” di andare a Modica perché “è pieno di focolai di coronavirus”, e del resto “con tutti quei negri”… ora, si sa che il campanilismo è molto presente anche in Sicilia, ma qui c’è qualcosa di più: è proprio che quella parte della Sicilia passa, nell’immaginario collettivo e in una narrazione fin troppo diffusa, come terra di sbarchi e di migranti. È chiaro che di sbarchi lo è, data la sua posizione geografica, anche se oggi, in tempi di decreti “sicurezza” e di contrasto a qualunque forma di salvataggio in mare, molto meno che in passato. È anche vero che sono in aumento le partenze dalla Tunisia, e che mentre vengono tuttora bloccate o si ritarda in maniera ingiustificata l’approdo delle navi delle ONG gli sbarchi “autonomi” proseguono a ritmo incessante. Ma se l’hotspot di Lampedusa è da tempo al collasso è perché si cerca di tenere queste persone lì il più possibile, rallentandone la distribuzione, e del resto si è volutamente smantellato un sistema che permetteva la distribuzione in centri più piccoli, più gestibili e meno impattanti sul territorio. Lo stesso vale, anche se con altre dimensioni, per il centro di accoglienza di Pozzallo, che è a pochi chilometri da Modica ed è una delle tappe del percorso del pullman. Ma da qui a dire che queste terre siano “da evitare”, davvero, ce ne passa. Ed è anche evidente, per chi lo vuole vedere, che il coronavirus non sono stati e non sono certo i migranti dei barconi a “portarlo”, salvo casi sporadici che sono niente più di una goccia nel mare.
Modica, per dirla tutta, è salita qualche settimana fa agli onori delle cronache anche per un’altra vicenda legata al COVID-19: si è temuto che si venisse a creare un focolaio a causa di una escort peruviana che, dopo aver “esercitato” per un paio di settimane in un appartamento di Modica, si è spostata in Umbria e lì ha accusato i sintomi. La faccenda ha assunto fin da subito contorni ai limiti del boccaccesco, tra appelli dei sanitari e del sindaco ai clienti a fare i tamponi, con la garanzia dell’anonimato per evitare gli ovvi imbarazzi e le possibili reazioni delle mogli siciliane… ma ora tutto tace, non è chiaro se perché il temuto focolaio non si è davvero sviluppato o perché i clienti non si sono fidati del sindaco e non hanno fatto i test. Possiamo dire che, comunque, se c’è qualche contagiato si tratta di asintomatici, altrimenti si sarebbe saputo.
Noi comunque non siamo preoccupati, abbiamo altro a cui pensare: siamo ansiosi di iniziare questo viaggio di cui vediamo già i colori mentre ci si staglia davanti lo spettacolo delle antiche case in pietra di Modica, ci sembra già di sentire i profumi, e già pregustiamo i sapori. E quindi è anche venuto il momento di chiudere questo prologo e di andare a cominciare il racconto.
Venerdì 7 agosto 2020 – Modica
“… E forse fu grazia del luogo dove abitavo, un paese in figura di melagrana spaccata; vicino al mare ma campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi; con tante scale fra le due metà a far da pacieri, e nuvole in cielo da un campanile all’altro, trafelate come staffette dei Cavalleggeri del Re… Che sventolare, a quel tempo, di percalli da corredo e lenzuola di tela di lino per tutti i vicoli delle due Modiche, la Bassa e la Alta…”
Da “Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria” di Gesualdo Bufalino
Modica è proprio così, spaccata in due come una melagrana tra la parte alta e la parte bassa, ma non è tutto: è costruita in una spettacolare posizione tra due profonde gole, con case assiepate lungo i fianchi delle quattro colline che la cingono. Ogni sera si accende di luci che la trasformano in una sorta di magico presepe. Per questo e per il suo patrimonio di architetture barocche, che domani scopriremo, è stata dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.
A Modica saremo ospiti del B&B “I tetti di Siciliando”, che si trova in pieno centro storico e che vanta, tra l’altro, un terrazzo con una vista davvero mozzafiato. Ma c’è anche un caratteristico cortile che profuma di gelsomino e che fa da ingresso a questa antica casa, che conserva ancora oggi decorazioni e pavimentazioni tipiche d’epoca. In particolare, nella sala che era destinata alle feste nobiliari, dove oggi si fa colazione, è possibile ammirare una magnifica pavimentazione con ceramiche di Caltagirone dipinte a mano. Le camere, semplici ma accoglienti, sono state recentemente decorate da artiste che qui hanno voluto lasciare una loro impronta.
Ad accoglierci ci sono Rosellina e Graziana, che gestiscono il B&B e che si prodigano fin da subito per farci sentire a casa. Scambiando le prime parole, Rosellina ci conferma che, nonostante la escort diventata ormai famosa, al momento non risultano focolai e in città già quasi non se ne parla più. È giusto dire “città” quando si parla di Modica, perché definirla un paese sarebbe veramente riduttivo, sia per le dimensioni (nonostante la sua particolare topografia, è davvero molto estesa e supera i 50.000 abitanti) sia per l’importanza storica: ha a lungo rivaleggiato con Ragusa per diventare capoluogo di provincia ed è stata, dal XIII fino al XIX secolo, sede di una contea che comprendeva quasi tutto l’attuale territorio della provincia e Ragusa stessa.
Noi arriviamo nel tardo pomeriggio e quindi, considerato anche il caldo, ci concediamo una doccia e un riposino. Non ci resta altro che prepararci per l’aperitivo di benvenuto con vista sui tetti di Modica, che danno il nome al B&B, e per la cena.
Se il riferimento ai tetti è chiaro, Rosellina ci spiega “Siciliando” come la volontà di fare della Sicilia un verbo, dando l’idea del movimento e di una vacanza attiva ed esperienziale, che è proprio quello che faremo noi… a partire da domani. Per ora ci godiamo (è il caso di dirlo) la cena, che prevede ravioli di ricotta e gnocchetti al sugo, seguiti da bocconcini di maiale e salsiccia. Per finire, una macedonia di frutta.
Dopo cena, il Comune di Modica offre uno spettacolo gratuito intitolato “Sicilia Bedda” che mette insieme storie, leggende popolari e pezzi di teatro tutti chiaramente “a tema” siciliano. Noi arriviamo che è già iniziato, ma oltre alla location senz’altro suggestiva, alla base di una delle tante scalinate di Modica con la scalinata stessa a fare da tribuna, facciamo in tempo a goderci tre frammenti belli e significativi: la leggenda di Aci, Galatea e Polifemo, recitata in dialetto, quella di Colapesce e… una terza che non è una leggenda, è una storia vera, anche se può sembrare un po’ una favola moderna. Quest’ultima racconta di un ragazzino che molti anni fa, quando si volava più che altro con la fantasia e quando un piccolo spiazzo angusto come quello in cui ci troviamo nella fantasia poteva diventare uno stadio di serie A, giocava a pallone con i suoi amici, proprio qui. Partite interminabili, che finivano solo al calare del sole. Un giorno successe qualcosa, qualcosa che fece cambiare perfino la storia di questa città: quel ragazzino, andando a cercare di recuperare il pallone finito dietro una grata in mezzo ai rovi, scoprì che lì, in quella grotta allora adibita a garage, c’erano segni di pittura… e venne così riportata alla luce una chiesetta rupestre dimenticata da secoli. È la chiesa di San Nicolò Inferiore. A Modica storicamente, insieme alle grotte artificiali ad uso abitativo, vennero ricavati nella roccia i luoghi destinati alla cura animarum, le tante chiese rupestri riscontrabili ancora oggi sia in ambito urbano che extra-moenia. Realizzata tra l’XI ed il XII secolo, quando l’isola venne restituita alla cristianità con la conquista normanna, questa chiesetta costituisce una delle più importanti architetture religiose “in negativo” presenti nella Sicilia sud-orientale. Trattandosi verosimilmente della chiesa parrocchiale del quartiere grecofono di Modica, in essa venne inizialmente officiato il rito orientale, gradualmente abbandonato in seguito all’affermarsi del processo di latinizzazione. Nel 1577 la chiesa di San Nicolò venne annessa alla vicina e più importante parrocchia di San Pietro.
Quel ragazzino, stasera, è proprio qui con noi: ora non è più tanto ragazzino (la chiesa è stata “riscoperta” nel 1987), ma non può certo dimenticare quella partita; sorride, si alza e saluta il pubblico con una certa timidezza.
Dopo di che, lo spettacolo finisce e chi vuole (noi non ci tiriamo certo indietro) può entrare nella chiesetta per una breve visita guidata, rispettando le attuali norme sanitarie ed evitando assembramenti.
I cicli pittorici visibili sulle pareti presentano caratteri riconducibili all’arte bizantina: il Cristo Pantocrator, con una tunica di colore rosso con maniche strette ai polsi e un mantello riccamente drappeggiato, è inserito in una mandorla (molto siciliano, ndr) decorata con filo rosso continuo, sorretta da angeli, è assiso in trono nel catino absidale, tiene in una mano il Vangelo aperto con la scritta “Ego Sum Lux Mundi” e con l’altra benedice. Ai lati del Pantocrator sono riconoscibili S. Pietro (raffigurato con la mano destra benedicente, mentre con la sinistra regge le chiavi), una Mater Domini (raffigurata con un manto rosso cupo con ricco panneggio, con la mano destra regge il Bambino mentre la sinistra è portata al petto), S. Michele Arcangelo, S. Giacomo ed altri santi. La data 1594, dipinta su S. Giacomo, fa intuire la sovrapposizione di diversi cicli di pitture su quello originale, testimoniata anche dalla diversità di stili.
Non si può andar via senza aver firmato per votare questa chiesa come luogo del cuore del FAI. Se volete farlo anche voi si può votare on line qui:
https://www.fondoambiente.it/luoghi/chiesa-rupestre-di-san-nicolo-inferiore?ldc
Uno sguardo al Duomo barocco di San Pietro, quello di Modica Bassa, più vicino a noi (scopriremo domani che di duomi ce ne sono due) e si può dire che la prima serata modicana sia completa, e che sia già stata ricca. Ma è solo l’antipasto di quello che ci aspetta domani.
Sabato 8 agosto 2020 – Modica
Oggi, dopo una buona e abbondante colazione, arricchita da frutta fresca e marmellate fatte in casa (di mele cotogne, limoni e frutti di bosco), ci aspetta il trekking urbano “Su e giù per i colli di Modica”, che ci farà apprezzare tutte le bellezze della città in un susseguirsi di scale, viuzze, cortili e sentieri. Poche nuvole oggi, il sole ci accompagna ma… proprio per questo è bene non partire troppo tardi. È Rosellina a guidarci, col passo spedito di chi è abituato a una città fatta a scale che si inerpica su quattro colli, ma anche con la pazienza di aspettare chi questa abitudine ce l’ha… un po’ meno, diciamo così.
Il sito di Modica, che si colloca nell’area meridionale dei Monti Iblei, fu popolato prima dai Sicani, poi per un certo periodo anche dai Fenici, in seguito stabilmente dai Siculi. Secondo quanto si può dedurre dai frammenti di Ellanico e Filisto, riferiti alla discesa dei Siculi dal Lazio, e conseguente occupazione della Sicilia orientale a scapito dei Sicani, la vera e propria fondazione delle città sicule in questa porzione dell’isola si può fare risalire a 80 anni prima della guerra di Troia, quindi verso il 1360 a.C.. Secondo Giovanni Ragusa, storico e filologo locale, il termine verrebbe dal toponimo Mùrika, significando questo nella lingua dei Siculi nuda roccia (a riprova ci sarebbe il fatto che ancora nella parlata locale i residenti si dicono “Muricàni”), e poi così è stato tramandato dai Greci prima, dai Romani dopo. Un’altra interpretazione filologica ritiene che il greco Motyka provenisse dall’indoeuropeo Moth (= monte, collina) + Uc (= molte), dunque Mothuc, la città dalle molte colline, le quattro colline su cui avevano case, rifugi e sepolture gli antichi modicani. Durante il periodo della dominazione araba, e fino al XIV-XV secolo, la città veniva citata nei documenti ufficiali col nome di Mohac o Mudiqah. Poi, prendendo lentamente il sopravvento come lingua ufficiale del Regno di Sicilia, parallela al latino, la parlata italiana, la denominazione del periodo arabo-normanno andò a scomparire. Nel dialetto locale, infine, viene chiamata “Muòrica”. Quindi, come tutte le città che sono passate attraverso molte dominazioni e molte culture, ha avuto molti nomi.
Il nostro percorso inizia attraversando il limite delle due matrici, cioè il limite tra Modica Alta e Modica Bassa. Modica infatti è stata definita la “città delle due città”, ovvero le due aree originarie in cui è divisa. La prima, Modica Alta, si sviluppò intorno al Castello, la seconda, Modica Bassa, lungo i torrenti i cui alvei ormai da decenni sono stati coperti.
Modica Alta è un insieme caratteristico di piccole e antiche casette arroccate. Modica Bassa, fino ai primi del ‘900, era caratterizzata dalla presenza di due fiumi che la attraversavano, poi ricoperti a causa delle numerose alluvioni. Essi percorrevano quello che adesso è il corso principale della città, Corso Umberto I, e si univano a formare il fiume Moticano (o Fiumara), corso d’acqua a carattere torrentizio della Sicilia sud-orientale. L’incontro tra i due corsi d’acqua avviene proprio sotto la Torretta dell’Orologio del Castello dei Conti di Modica. Sopra i due fiumi erano stati costruiti ben 17 ponti che univano le diverse sponde della città, tanto che Modica venne definita la città più caratteristica d’Italia, dopo Venezia, nelle prime edizioni dell’Enciclopedia Treccani.
Per questo esistono due cattedrali: il Duomo di San Pietro per Modica Bassa e quello di San Giorgio per Modica Alta. Le due parti della città sono ancora oggi divise da una certa rivalità: le due fazioni sono chiamate sampietrari e sangiorgiari; ma un tempo, quando i due santi venivano portati in processione, non si poteva proprio sconfinare, se non si volevano creare disordini. Perciò il limite è ancora segnato in più punti con delle targhe in pietra. Noi finora siamo rimasti a Modica Bassa, varchiamo per la prima volta il limite ed entriamo in Modica Alta.
Dalle pietre qua e là spuntano piante di capperi, che crescono spontanei e scendono lungo le pareti. Tutta la città è punteggiata di chiese e chiesette, a volte da quattro piccole chiese se ne è poi fatta una, come nel caso della chiesa di Santa Maria (XVI-XIX sec.). A Modica, ci racconta Rosellina, ci sono a tutt’oggi almeno 80 chiese.
Vediamo il Reale Asilo Regina Margherita, ora purtroppo in stato di abbandono, e la casa natale di una gloria modicana, il filosofo, poeta e medico Tommaso Campailla, vissuto tra il 1600 e il 1700.
Campailla è passato alla storia per le sue famose “botti” (dette poi botti del Campailla) che servivano a curare non solo la sifilide (considerata allora il male del secolo e ritenuta dalla Chiesa un castigo di Dio per i peccati degli uomini), ma anche i reumatismi e, in generale, qualunque forma di artrosi.
La “botte”, in realtà, è una stufa mercuriale con all’interno uno sgabello, sul quale il paziente veniva fatto sedere, in attesa della cura. Questa consisteva nel versare, in un braciere che si trovava pure all’interno della stufa, la relativa dose di cinabro, da cui, per sublimazione, esalavano dei vapori di mercurio, che erano poi assorbiti dal corpo del paziente in piena sudorazione. La novità introdotta dal Campailla consistette nell’aggiunta di incenso all’interno della botte, in una dose che consentiva ai vapori sprigionati di essere più “respirabili” per un certo lasso di tempo, variabile dai 10 ai 20 minuti circa, a seconda dalle condizioni soggettive del paziente. Tuttavia questi vapori, così esalati, erano curativi solamente per i sifilomi che infestavano la cute, i quali regredivano sì ma senza remissione del morbo, che solo con l’avvento della penicillina, nel ‘900, si debellerà.
Passiamo poi al quartiere della Giacanta, il cui nome sembra derivi da “gigante”, ma in questo caso al femminile perché si trattava di una montagna. È un quartiere ricco di orti e, un tempo, vigne pregiate. Questa è anche terra di ulivi e di mandorli (famose le mandorle di Avola). Ci sono anche molti carrubi, i cui frutti (le carrube) si possono trovare facilmente. Rosellina ci racconta a proposito una gustosa curiosità: siccome i semi di carrubo erano ritenuti particolarmente uniformi come dimensione e peso, dal loro nome arabo (qīrāṭ o “karat“) è stato derivato il nome dell’unità di misura (carato) in uso per le pietre preziose, equivalente a un quinto di grammo.
Un’altra curiosità: A Modica, come in tutta la Sicilia, può capitare di vedere dei vasi a forma di testa di “turco” o di “moro” (che nella parlata siciliana tradizionale sono sinonimi), dove si fa crescere il basilico. Tutto nasce da un’antica leggenda, che ci racconta Rosellina. Non è una leggenda modicana, ma palermitana.
Si racconta che intorno all’anno 1100, periodo della dominazione araba in Sicilia, alla Kalsa, antico quartiere della città di Palermo, vivesse una bellissima fanciulla. La ragazza trascorreva le sue giornate quasi esclusivamente in casa, dedicandosi alla cura delle piante che ornavano il suo balcone. Un giorno, passando per la Kalsa, un giovane moro vide la bella ragazza intenta ad annaffiare i suoi fiori, e subito se ne innamorò. Decise di volerla tutta per sé e, senza indugio, entrò in casa della ragazza per dichiararle il suo amore. La fanciulla, colpita da quell’ardito e intenso sentimento, ricambiò l’amore del giovane, ma quando seppe che questi l’avrebbe presto lasciata per tornare nelle sue terre in Oriente, dove l’attendevano moglie e figli, approfittò della notte e lo uccise mentre giaceva addormentato. La ragazza gli tagliò la testa, e con questa fece un vaso dove piantò una pianta di basilico, che mise sul balcone, affinché l’uomo rimanesse per sempre con lei. Il basilico crebbe rigoglioso grazie alle lacrime che la fanciulla vi versava giornalmente, destando però l’invidia di tutti gli abitanti del quartiere che, per non essere da meno, si fecero costruire dei vasi di terracotta a forma di testa di moro.
Un’altra chiesa di particolare interesse è quella della Madonna del Carmine (fine XIV – inizi XV secolo), in stile gotico chiaramontano (i Chiaramonte furono una famiglia nobile siciliana di origine normanna). È uno dei pochi monumenti che resistette alla violenza del terremoto del 1693. E infatti il prospetto, che aveva in parte superato anche il terremoto del 1542 e quello del 1613, è arricchito da un bel portale risalente alla fine del Trecento, sovrastato da un rosone francescano con dodici raggi.
Scendendo e risalendo su un altro colle dalla parte opposta rispetto al corso del fiume (che oggi è Corso Umberto), si trova il quartiere ebraico di Cartellone o Cartidduni, così chiamato da un cartello che indicava ai cristiani l’ingresso del ghetto (secondo un’altra versione Cartidduni verrebbe invece dall’arabo Harat al Yahud – quartiere ebraico). La comunità ebraica di Modica, esistita fino all’espulsione degli ebrei dalla Sicilia decretata nel 1492, fu una delle più fiorenti della Sicilia. Il suo sviluppo fu legato alle vicende della contea di Modica, i cui domini si estendevano su buona parte della Sicilia. Il numero di ebrei modicani doveva aggirarsi intorno alle 1000 o 2000 persone, se un quartiere intero era abitato essenzialmente dalla comunità. Molti ebrei erano mugnai, e possedevano buona parte dei mulini della contea. Un’indicazione della rilevanza della popolazione si ha anche in relazione ad un avvenimento tragico che colpì la città nel giorno dell’Assunta del 1474. In quel giorno, diverse centinaia di ebrei, si parla di almeno 360, furono massacrati dalla popolazione modicana aizzata da un predicatore particolarmente fervente. Il quartiere venne poi saccheggiato, e incendiata la sinagoga di cui oggi non vi è più traccia. Questo massacro fu il più terribile della storia degli ebrei di Sicilia. Alcuni anni più tardi in tutta la Sicilia questa rabbia sfocerà nella cacciata degli ebrei dall’isola, che avvenne poi nel 1492, contemporaneamente all’espulsione degli ebrei dalla Spagna (allora in Sicilia dominavano gli aragonesi) con l’editto dei Re Cattolici.
Qui un articolo per chi volesse approfondire.
Oggi il quartiere si distingue per le case addossate le une alle altre, quasi a sostegno reciproco, i cortili di basole e i vicoli densi di vegetazione spontanea.
Per noi è giunto il momento di una pausa, che ci concediamo all’enoteca Sapori Doc, dove possiamo degustare dell’ottimo Nero d’Avola, o il Cerasuolo (unica DOCG siciliana), che è un mix di Nero d’Avola e Frappato. Degustazione da accompagnare con un tagliere di prodotti siciliani e con la ricotta calda (tipica di questa parte della Sicilia) da spalmare sul pane insieme alla marmellata. Pausa piacevole e gustosa, neanche da dirlo, che si prolunga con un po’ di siesta, salutare in queste giornate così calde.
Il prossimo appuntamento è un altro appuntamento… dolce, quello con l’Antica Dolceria Bonajuto, dove avremo il nostro primo incontro con il cioccolato di Modica. Scommetto che molti di voi hanno già sentito parlare del cioccolato di Modica, e forse l’hanno anche assaggiato. Ma qual è la vera particolarità del cioccolato di Modica, cos’è che lo distingue da tutti gli altri tipi di cioccolato? Siamo qui per scoprirlo.
Bonajuto è un’autentica istituzione a Modica, lo si capisce dalla fila di persone che ininterrottamente, dalla mattina alla sera, aspetta con pazienza di poter entrare (in questi tempi di Covid gli accessi sono ovviamente contingentati) e acquistare qualcuna delle sue specialità, da portare a casa o da gustare sul posto.
Per il nostro gruppo è stata appositamente organizzata una dimostrazione, che, sempre per evitare assembramenti in luogo chiuso, si svolgerà all’esterno, nel vicolo che si snoda di fianco alle vetrine di Bonajuto, dove c’è anche l’ingresso.
Sul tavolo abbiamo il frutto e le fave di cacao, per far vedere come è fatta una materia prima che pochi conoscono in questa forma (io ho già avuto modo di conoscere più da vicino il cacao in Messico). Per la dimostrazione “pratica”, però, si salta naturalmente qualche passaggio e si parte da una pentola di massa di cacao, che è l’impasto liquido denso da cui si ricava il prodotto finale.
Ma prima bisogna fare un po’ di storia del cioccolato, anzi di… preistoria. Sì, qui parliamo della preistoria del cioccolato. Anche Leonardo Sciascia, parlando del cioccolato di Modica, lo definì “l’archetipo del cioccolato”. Questo che vediamo qui è infatti il primo modo di assemblare cacao e zucchero inventato dagli spagnoli. Non si tratta, come è ovvio, del cioccolato “dei maya” o “degli aztechi”, come a qualcuno piace raccontare, perché quelle popolazioni non conoscevano il cioccolato. Conoscevano il cacao, questo sì, eccome; prima della scoperta dell’America il cacao cresceva solo in Centroamerica, quindi ne avevano l’esclusiva. Ma non conoscevano lo zucchero, che non utilizzavano. Il cacao veniva consumato, per celebrare una vittoria o per prepararsi a una grande impresa, sotto forma di una bevanda, spesso servita in una mezza noce di cocco, a base di acqua, semi di cacao tostati e macinati, mais e peperoncino. Questa cerimonia si chiamava, in lingua azteca che però aveva preso a prestito la parola dalle lingue maya, xocoatl, che significa “acqua amara”. Ed è da qui che viene la parola moderna “cioccolato”. Gli spagnoli si resero conto che questa bevanda, in qualche modo, dava euforia ed energia ma, assaggiatala, ne rimasero disgustati. Un ufficiale la definì “una bevanda da porci”. Per renderla più dolce, allora, cominciarono ad aggiungere grandi quantità di zucchero, vaniglia e cannella. Nacque così il primo cioccolato nel senso che oggi conosciamo.
Solo molto più tardi vennero le prime piantagioni in Africa, nella fascia tropicale che ha un clima simile a quello del Centroamerica, e gli altri tipi di lavorazione più “industriale”.
I semi di cacao, eliminata la sostanza gelatinosa che li avvolge, non hanno nessun gusto. Devono essere fatti fermentare per 10-15 giorni, dopo di che prendono sì un sapore, ma un sapore che si avvicina a quello delle olive verdi, ancora molto lontano da quello del cioccolato. Solo dopo la tostatura il cacao prende il gusto amaro che conosciamo. I semi, sbucciati, vengono poi macinati a freddo. Il solo calore derivante dall’attrito provocato dalla macinazione, tuttavia, è sufficiente a fondere il burro di cacao, producendo quella massa fusa che poi, raffreddata, solidifica. Per riportarla allo stato fuso e mescolarla con lo zucchero, la si scalda a bagnomaria, ottenendo la massa di cacao nella forma che vediamo qui. Lo zucchero non si scioglie, perché non trova un liquido in cui sciogliersi né una temperatura sufficiente per la fusione, e quindi rimane in forma granulare. Da qui viene quella consistenza “granulosa” che è la caratteristica più riconoscibile del cioccolato di Modica. Caratteristica che non si trova nel cioccolato “comune” industriale perché lì lo zucchero usato non è zucchero di canna a grana piuttosto grossa ma è zucchero bianco finissimo, simile allo zucchero a velo. Si aggiunge anche qualcosa per aromatizzare: oggi come tutti sappiamo ci sono infiniti gusti di cioccolato, e anche Bonajuto, che è una cioccolateria storica, si è un po’ “adattata” a questo, ma fino a non molti anni fa i possibili gusti erano soltanto due: vaniglia o cannella. Oggi poi, rispetto al passato, si mette meno zucchero e più cacao.
Il cioccolato, comunque, venne ancora consumato liquido per almeno due secoli prima che si cominciassero a produrre le prime tavolette secondo il concetto di oggi. Prima le tavolette venivano prodotte solo per avere scorte di cioccolata “trasportabile”, ma sempre poi da sciogliere e consumare liquida. Per ottenere la tavoletta, si fa quella che si chiama la “battitura”, cioè gli stampi, messi all’interno di un vassoio, vengono battuti sul tavolo per fare in modo che l’impasto denso si “spalmi” uniformemente negli stampi stessi, che poi vengono fatti raffreddare.
Nel 1600 il cioccolato, attraverso gli spagnoli, arrivò un po’ dappertutto. A Modica, che già da due secoli era colonia spagnola, arrivavano molte persone dalla Spagna, e ciascuno portava con sé il suo mestiere. Arrivarono anche parecchie persone che già avevano iniziato a produrre cioccolato in Spagna, e con loro portarono questa ricetta che oggi definiamo “tradizionale” ma allora era l’unica esistente. La cioccolata divenne subito molto diffusa, almeno tra chi se la poteva permettere (allora era una bevanda riservata ai nobili o ai ricchi borghesi), e mise radici in questa forma nella Contea di Modica. In altri paesi europei o nel nord Italia, invece, il cioccolato arrivò per altre vie, non attraverso i pasticceri-cioccolatieri ma tramite i mercanti, e iniziò un tipo di evoluzione che avrebbe poi portato al cioccolato svizzero con l’aggiunta di latte in polvere.
Abbiamo parlato finora di cioccolato di Modica ma alla fine… colpo di scena: scopriamo che Bonajuto non fa cioccolato di Modica. Non lo fa nel senso che ha scelto di uscire dal consorzio dei produttori, al quale inizialmente aveva aderito, e quindi non può fregiarsi del marchio IGP e non può chiamarlo “cioccolato di Modica”. Perché? La storia è questa. Circa vent’anni fa, il cioccolato di Modica, che per quattro secoli era rimasto confinato in questa zona della Sicilia ed era solo un cioccolato grezzo e granuloso, conosciuto ed apprezzato da pochi, comincia a diffondersi e a diventare “famoso”, in un momento in cui anche il gusto dei consumatori inizia a orientarsi verso cibi più “slow”, più tradizionali, meno industrializzati e meno carichi di latte, creme e quant’altro. È allora che si forma il consorzio, ma dentro il consorzio c’è un po’ di tutto: chi crede nella ricetta tradizionale e vuole fare davvero del buon cioccolato secondo quella ricetta, ma anche chi semplicemente cavalca l’onda ed è interessato solo al profitto. Il principale motivo del contendere è che nel disciplinare presentato dal consorzio per ottenere il marchio IGP non si parla minimamente di materie prime, che invece secondo la filosofia di Bonajuto sono la cosa principale: è per questo che si arriva alla rottura, e che oggi il cioccolato di Bonajuto non è “cioccolato di Modica” IGP, ma è “soltanto” il cioccolato della più antica fabbrica di cioccolato della Sicilia. Una storia un po’ paradossale, ma in fondo non dissimile da quella di altri consorzi IGP nati negli ultimi anni.
Per finire davvero in bellezza, non può mancare la degustazione di assaggi di cioccolato ma anche di altri dolci tipici modicani. I più particolari sono forse due: la ‘mpanatigghia e l’aranciata modicana.
La ‘mpanatigghia, i più ispanofoni tra voi l’avranno già capito, è qualcosa che ha a che vedere con l’empanadilla, e si rifà quindi ancora una volta alla storia della Modica spagnola. Le empanadillas, per chi non lo sapesse, sono fagottini di pasta a forma di mezzaluna, fritti o al forno, con ripieni di carne e/o verdure, con varianti pressoché infinite; sono tipiche della cucina spagnola (anche se c’è chi dice che siano di derivazione araba, e non è affatto improbabile) e di tutti i paesi dell’America Latina. La ‘mpanatigghia modicana, invece, è un dolce, ma la sua forma e la sua fattura sono esattamente le stesse, con la differenza che il ripieno è dolce, fatto di cioccolato, miele, mandorle tostate e spezie come chiodi di garofano e cannella, ma sempre con un po’ di carne di vitello tritata, anche se è difficile sentirne il sapore, coperto com’è dagli altri.
L’aranciata modicana è invece una sorta di “torrone” che viene preparato con scorze di arance siciliane cotte nel miele. Molto aromatica, gode di una lunga conservazione. Tradizionalmente veniva consumata come digestivo e si può anche usare al posto dello zucchero in bevande calde come tè o tisane.
Completata quest’altra… dolce incombenza, per noi è il momento di continuare il percorso di visita di Modica: ci manca ancora infatti una buona parte di Modica Alta. Abbiamo deciso, per ottimizzare gli sforzi, di raggiungerla con il Trenino Barocco, un trenino turistico che ci farà fare un percorso panoramico ma restando comodamente seduti. Poi continueremo la visita con una guida e scenderemo a piedi. In realtà, scopriamo che comodamente seduti lo siamo fino a un certo punto, nel senso che il trenino è pieno e quindi noi, sia pure tutti con la nostra brava mascherina, siamo costretti ad… assembrarci in due “scompartimenti” del trenino in spazi piuttosto angusti, soprattutto per Giulio che è alto 1,90, ma tutti stiamo stretti e il distanziamento, bisogna ammetterlo, non è rispettato. È soltanto il primo giorno, al massimo il secondo, e siamo già di fatto un gruppo di “congiunti”… del resto, non c’è altra soluzione. Mentre stiamo lì così in attesa della partenza, la nostra situazione attira l’attenzione di un anziano signore che si avvicina e, in puro dialetto “muricano”, ci rende partecipi di un suo sfogo sull’attuale gestione della pandemia da queste parti. Ne stava parlando con un suo amico – dice – ma poi ha visto noi e… gli sembra di cogliere una certa contraddizione tra le ordinanze del sindaco, anzi dei sindaci (a sentir lui, pare che ogni sindaco faccia un po’ come gli pare) e quello che si vede nelle strade. In effetti, proprio ieri il sindaco di Modica ha emesso un’ordinanza che impedisce l’accesso alle spiagge di Marina di Modica e Maganuco per le sere del 10 e del 14 agosto. Sembra che i ragazzi del posto, per tradizione, siano abituati a festeggiare in spiaggia la notte di San Lorenzo e quella di Ferragosto, facendo tutte quelle cose che in questo momento andrebbero fatte a un metro di distanza. Essendo improbabile che il distanziamento venga rispettato, il sindaco ha deciso di chiudere. Sì, ma solo per quelle due sere. E allora le altre sere? E di giorno? E i turisti che fanno assembramenti come stiamo facendo noi? Il succo è un po’ questo, esposto ovviamente in maniera molto più colorita. Precisa che, naturalmente, non ce l’ha con noi, al massimo con il sindaco, e si scusa sia per lo sfogo che per il dialetto, che peraltro era comprensibile.
Dopo questo divertente fuori programma si parte: il trenino ci porta fino alla chiesa di San Giovanni, dove inizia il nostro giro con Sabrina, la guida locale che abbiamo già conosciuto perché è stata lei ieri sera a spiegarci la chiesetta rupestre di San Nicolò Inferiore.
San Giovanni rappresenta il punto più alto della città, perché con la sua croce ferrata arriva a 449 m sul livello del mare. La scalinata era un tempo abbellita da statue di santi, ma oggi ne restano solo tre. Il prospetto della chiesa è in realtà ottocentesco, perché fu rifatto dopo una delle varie scosse sismiche che nei secoli hanno colpito questa zona. Le facciate delle chiese, qui, sono spesso concave o convesse. In questo caso abbiamo una facciata concava, decorata dalle statue dei Santi Pietro e Paolo e dalle allegorie della Fede e della Speranza. Questa chiesa, ora dedicata a San Giovanni Evangelista, era in origine intitolata a San Pietro ed era la chiesa madre della città, con annesso un monastero benedettino, che era uno dei sei monasteri fondati da Papa Gregorio Magno in visita alla Sicilia nel VII secolo. La chiesa fu completata nel 1150, ma l’attuale impianto con la scalinata risale al 1308. La facciata ottocentesca è singolare perché fu costruita a ridosso della precedente, incorporando le rovine come si faceva allora. All’epoca era uso non demolire le preesistenze, ma incorporarle nella nuova costruzione, perché se ne riconosceva la sacralità.
In epoca medievale, la chiesa era concepita come ricetto, come riparo per i cristiani, ed è per questo che le chiese di quel periodo possono somigliare a fortezze con camminamenti, merlature e torrette. In epoca barocca, invece, la chiesa diventa un tempio. Con il Concilio di Trento la celebrazione liturgica diventa uno spettacolo, da cui l’importanza degli organi. E se la messa diventa uno spettacolo, la chiesa deve prestarsi ad esserne il palcoscenico. È un modo per celebrare la superiorità della fede cattolica in periodo di controriforma, ma anche per consolare la povera gente che, ammirando le facciate imponenti e gli interni maestosi, può sperare in una vita ultraterrena migliore di quella che è costretta a vivere. Della chiesa, che ha un impianto a tre navate, colpisce il biancore degli stucchi. La Sicilia ha dato i natali al più grande stuccatore d’Italia, Giacomo Serpotta, che la nostra Sabrina considera più importante del Bernini “perché non siamo super partes”. Il Serpotta, attraverso una tecnica detta allustratura, riusciva a riprodurre l’effetto ottico del marmo attraverso il biancore degli stucchi. Gli stucchi del Serpotta non si trovano in questa parte dell’isola, ma si concentrano tra Palermo e Trapani. Però qui operò la scuola del Serpotta, la cui influenza si protrae addirittura fino ai primi del ‘900 con i fratelli Giuliano di Palazzolo Acreide: Sebastiano Giuliano, tra il 1902 e il 1905, si occupò dei decori di questa chiesa. Non appaiono qui i classici puttini, ma figure angeliche con abiti a pieghe svolazzanti. Colpisce anche il ricorso alla pietra pece, che è una pietra nera bituminosa tipica del ragusano. Questa, essendo idrorepellente, si prestava molto per i piani di calpestio ed è infatti spesso usata nei pavimenti, ma si possono trovare anche zoccolature delle colonne e addirittura statue in pietra pece. Al 1200 risale il culto dell’Addolorata, rappresentata in un gruppo statuario del ‘500 poi rimaneggiato. C’è un altare laterale che custodisce il simulacro dell’Addolorata, dove in passato vi era la tradizione della svelata, cioè in occasione della festa veniva rimosso il quadro e si esponeva il gruppo statuario. In corrispondenza dell’altare si può vedere la pala di San Giovanni.
Altre particolarità di questa chiesa sono le reliquie di Santa Temperanza, ma soprattutto il fatto che questa è l’unica chiesa di Modica dove si conserva un quadro dedicato alla Madonna Guerriera di Scicli, unico caso al mondo di Madonna Guerriera. Secondo la tradizione cattolica, nel 1091, nella piana di Donnalucata nei pressi di Scicli stavano per sbarcare i saraceni sull’isola, allora dominata dai normanni di Ruggero d’Altavilla. Ma gli sciclitani e i normanni invocarono l’aiuto della Vergine, che apparve su un cavallo bianco in veste di gloriosa guerriera, sconfiggendo così i saraceni e liberando la Sicilia.
Usciti dalla chiesa, ci dirigiamo verso il Pizzo. Questi quartieri di Modica Alta mantengono ancora la struttura medievale, con strade molto strette. Le nuove città ricostruite dopo il grande sisma del 1693, invece, furono costruite ad ampio respiro, con strade ampie e un impianto urbanistico a scacchiera, come a Noto (dove andremo domani). Questo perché ci si era resi conto che il numero di morti per i terremoti era sì dovuto alla forza delle scosse, ma anche all’effetto domino delle case che crollavano le une sulle altre.
Altra caratteristica evidente sono le ringhiere dei balconi barocchi in ferro battuto dalle forme chiamate “a petto d’oca” che, a seconda del proprietario e dello stile della casa, sono più o meno complicate. Oltre ad essere decorative, queste ringhiere garantivano che le signore della famiglia, affacciandosi al balcone, non vedessero le loro preziose e ampie gonne sporcate dai vasi o impigliate tra i ferri nel loro appoggiarsi, e potessero quindi mostrarsi con nobile eleganza.
In questo quartiere nacque nel 1860 il musicista modicano Pietro Floridia.
Ma qui ci stiamo addentrando ora nella parte araba. Dal colle Pizzo vediamo di fronte a noi il colle Monserrato, dove si erge il Santuario della Madonna delle Grazie, che è la patrona della città insieme a San Giorgio e San Pietro. Qui sul Pizzo si erano insediati gli arabi dopo la conquista normanna. Qui Sabrina ci racconta che la dominazione araba in Sicilia, tradizionalmente, ha inizio con una storia d’amore. Il generale Eufemio da Messina si innamora di una suora, la rapisce da un convento, viene cacciato dalla Sicilia dai bizantini contro cui si era ribellato e si rivolge all’emiro dell’Ifriqiya (all’incirca l’attuale Tunisia). Da lì, alleatosi con gli arabi, lancia nell’827 la guerra santa, la jihad. La guerra fu feroce, intere città siciliane furono cancellate per secoli e gli arabi da liberatori si trasformarono in conquistatori.
Ma – dice Sabrina – noi siamo arabi. Siamo arabi nel cibo, siamo arabi nelle parolacce, siamo arabi nell’atto di vestirci di nero (il nero in Tunisia è il colore della festa), siamo arabi nel modo di parlare, nel modo di urlare. Gli arabi, insomma, hanno lasciato in Sicilia una traccia indelebile della loro civiltà. Senza contare che, anche geograficamente, la Sicilia è più vicina al Nordafrica che al resto del mondo. Devo dire che è una dichiarazione, anche appassionata, che ho apprezzato molto, perché credo che molti siciliani di oggi se lo siano dimenticato; del resto, è un momento storico in cui dimenticarlo fa molto comodo. Ma ha ragione lei, è una realtà incontestabile. Per quanto riguarda nello specifico le parolacce, ci siamo interrogati poi per giorni su quali effettivamente fossero le parolacce di origine araba, ma anche gli stessi siciliani (ovviamente) spesso non lo sanno. Siamo arrivati soltanto a concludere che i cabbasisi, che spesso in Montalbano (che naturalmente è di queste parti, ma ne parleremo dopo) si invita a non rompere, derivano effettivamente dall’arabo habb+aziz (bacca rinomata o bacca preziosa). Si tratta in realtà di tuberi, ma è evidente che la forma ha favorito nella lingua l’associazione che tutti sappiamo…

I cabbasisi
Con gli arabi si consolida in quest’area anche il trogloditismo (che sarebbe poi l’utilizzo di grotte naturali come abitazioni), ma già con i bizantini si era avuta la trasformazione delle necropoli in abitazioni: la gente si arroccava per difendersi dalle incursioni prima barbariche poi saracene, le necropoli diventavano prima catacombe e poi case. E qui lo sarebbero rimaste nei secoli, fino alla legge Romita sull’edilizia impropria. In alcune zone come Cava Ispica (che visiteremo dopodomani) si viveva in grotte fino agli anni ’60.
Per testimoniare ulteriormente il lascito della civiltà araba nella cultura siciliana, Sabrina ci recita poi una poesia del primo cantore arabo della Sicilia, che avrebbe ispirato la scuola poetica siciliana e la poesia dei trovatori, ma non lo conosce quasi nessuno: si chiamava Ibn Hamdis, nato a Noto nel 1056 e morto in esilio a Maiorca nel 1133. Compose almeno 6000 versi dedicati alla Sicilia, vista come un Eden, un paradiso perduto dove non poteva più tornare. Sono le origini anche della letteratura italiana ed europea:
Sicilia mia. Disperato dolore
si rinnova per te nella memoria
Giovinezza. Rivedo le felici follie perdute
e gli amici splendidi
Oh paradiso da cui fui cacciato!
Che vale ricordare il tuo fulgore?
Mie lacrime. Se troppo non sapeste di amaro formereste ora i suoi fiumi
Risi d’amore a vent’anni, sventato a sessanta ne grido sotto il peso
Ma tu non aggravare le mie colpe
se l’Iddio tuo già ti concesse il perdono
[…]
Scopriamo anche che a Modica esisteva un ospedale degli Onesti, e quindi anche uno dei Disonesti, che era destinato a chi contraeva malattie veneree, in passato molto diffuse.
Poi Sabrina ci rammenta (ma ormai già lo sappiamo) che Modica è stata sempre caratterizzata da una lite religiosa tra due fazioni: i sangiorgiari, soprannominati cavaddari perché San Giorgio è sempre rappresentato sul suo destriero nell’atto di trafiggere il drago, e i sampietratri, soprannominati tignusi, perché San Pietro è calvo nella statua che lo rappresenta (letteralmente “tignoso” significa “pidocchioso”, ndr). Le feste, sia quella di San Giorgio che quella di San Pietro, erano spesso occasioni per darsele di santa ragione tra le opposte fazioni. Erano perfino vietati, o quanto meno osteggiati, i matrimoni “misti”. Come spesso capita, dietro la lite religiosa si cela uno sfondo sociale: i sangiorgiari erano i nobili, che vivevano nella città alta; San Giorgio è il santo apparso in sogno a Ruggero d’Altavilla che contribuì secondo la leggenda alla cacciata dei saraceni nella battaglia della piana di Cerami nel 1063. I sampietrari erano i massari, la borghesia terriera che aveva il potere economico ma aspirava ad avere un ruolo politico. Come si concluse questa lite religiosa a Modica? Con la scelta di tre santi patroni: San Giorgio, San Pietro e la Madonna delle Grazie. E con la scelta di due chiese madri (“Avendo due madri siamo una famiglia arcobaleno” – commenta ironica Sabrina): San Giorgio per Modica Alta e San Pietro per Modica Bassa. E lei in tutto ciò come si pone? Be’, forse – fa capire – il fatto che abbia chiamato sua figlia Giorgia significa qualcosa…
E, alla fine del nostro percorso, siamo proprio al Duomo di San Giorgio. I normanni, durante il loro dominio, si circondarono di cavalieri, di santi militari, tutti a combattere al loro fianco contro i saraceni, persino la Madonna come nel caso di Scicli. Tutto serviva ad avvalorare la matrice sacra della loro dominazione. San Giorgio, originario della Cappadocia, visse all’epoca di Diocleziano, si oppose all’editto di persecuzione dei cristiani del 303 d.C. e dopo un lungo martirio fu decapitato. San Giorgio è sempre ritratto nell’atto di trafiggere il drago, che in realtà simboleggia nient’altro che l’editto di Diocleziano. Con l’altro editto, quello di Costantino, nel 313 sarebbe poi giunta per i cristiani la libertà di culto. La festa di San Giorgio è celebrata l’ultima domenica di aprile dai sangiorgiari vestiti di bianco col fazzoletto rosso che portano la statua per le vie di Modica Alta (Modica bassa è ovviamente off limits). C’è l’usanza di gettare petali di rosa dalle finestre e di offrire uova, vino e salsiccia, meglio se dentro una schiacciata (o “scaccia”) modicana. A fine serata i sangiorgiari – assicura Sabrina – sono tutti rigorosamente ubriachi. La giustificazione che adduce lei è che i modicani, come tutti i siciliani, non sono solo arabi ma sono anche molto greci e quindi questa non è altro che la rivisitazione in chiave cristiana degli antichi riti dionisiaci. Comunque poi fuochi d’artificio, si torna in chiesa e si inizia a correre con la statua del santo sulle spalle. Questo momento si chiama “Vota Vota”, dove però “vota” non sta per votare, ma per girare (voltare) nella chiesa gremita di gente che fischia, urla e incita il santo chiamandolo per nome perché – spiega Sabrina – “Per noi non è San Giorgio, ma è Giurgiuzzu”. Allora si sente “Giorgio Giorgio”, “Salta salta”, “Fuori fuori”, al che i portatori corrono, saltano e vanno fuori sempre con la statua del santo sulle spalle. Fino a quando, stremati dalla fatica e dall’alcol, sono costretti a posarla. Questa festa risalirebbe agli anni ’70 del 1700. Nel 1773 i Borboni, stanchi dei continui tafferugli che scoppiavano durante le feste, le vietarono. Se volete festeggiare i santi – fu il messaggio – lo farete rigorosamente all’interno delle vostre chiese. Detto fatto. Questo spiega perché a Modica si corra per più di un’ora dentro la chiesa con l’organo che intona la marcia del santo e perché a Ragusa si balli con San Giorgio sulle spalle nella festa che si tiene a fine maggio ed è detta la “ballariata”. Il senso, in entrambi i casi, sarebbe di riprodurre l’effetto del cavaliere al galoppo.
Il prospetto del duomo di San Giorgio, risultato finale della ricostruzione sei-settecentesca, avvenuta in seguito ai disastrosi terremoti che colpirono Modica nel 1542, nel 1613 e nel 1693, si innalza per circa 62 m e presenta cinque portali d’ingresso, corrispondenti alle cinque navate (fatto non comune) con tre ordini sulla facciata. Le indicazioni ricavate dagli studi attribuiscono il progetto della facciata a Rosario Gagliardi, uno dei più validi architetti del Settecento europeo. Un capolavoro del barocco. La caratteristica delle chiese iblee, delle chiese tardo-barocche siciliane, è soprattutto la posizione della campana. Non abbiamo una torre, ma la campana diventa parte integrante del prospetto. La chiesa, edificata dopo il terremoto del 1693, è assolutamente settecentesca. Anche qui ritornano, nel transetto, gli stucchi di Sebastiano Giuliano dei primi del ‘900.

Il Duomo di San Giorgio
Sul pavimento dinanzi l’altare maggiore, nel 1895 il matematico Armando Perini disegnò una meridiana solare analemmatica; il raggio di sole, che entra dal foro dello gnomone posto in alto sulla destra, a mezzogiorno, segna sulla meridiana il mezzogiorno locale. All’estremo sinistro della meridiana, una lapide del pavimento contiene l’indicazione delle coordinate geografiche della chiesa, e dunque della stessa città di Modica.
Il grandioso polittico, sopravvissuto al sisma del 1693, è composto di nove pale e una lunetta. Nella lunetta Dio Pantocratore, che governa l’universo. Nel pannello centrale del primo ordine – registro inferiore – è raffigurata la Nascita, mistero gaudioso delimitato da due riquadri con le iconografie dei due santi cavalieri: San Giorgio che sconfigge il Drago e San Martino che divide il proprio mantello con Gesù che gli si presenta sotto le vesti di un povero accattone. Nel secondo ordine – registro centrale – sono riprodotti la Circoncisione, la Presentazione al Tempio ed il Ritrovamento di Gesù al Tempio o Disputa coi Dottori della Legge, con riferimento ai misteri gaudiosi. Nel terzo ordine – registro superiore – sono rappresentati la Pentecoste o Discesa dello Spirito Santo nel Cenacolo, la Risurrezione e l’Ascensione, tre dei cinque misteri gloriosi. È datato 1573 e attribuito a Bernardino Nigro: ciò che colpisce è soprattutto il fatto di trovarsi di fronte, in pratica, a un retablo spagnolo. Sì, perché i siciliani e soprattutto i modicani, oltre a essere greci e arabi, sono anche spagnoli, non solo nel cioccolato ma anche nella pittura.
Si conclude così un tour interessantissimo, che ci ha fatto capire quante identità ci siano nell’identità siciliana: Modica, come la Sicilia tutta, è greca, bizantina, normanna, araba, giudaica, spagnola ed è tutto questo insieme; qui sta la sua grande ricchezza. Bravissima Sabrina, devo dire che è stata davvero molto coinvolgente e appassionata, è bello trovare guide così.
E per finire una chicca per gli aficionados di Camilleri, e di Montalbano in particolare. Queste sono proprio le sue terre, sappiamo che Vigata in realtà non esiste ma è frutto della sapiente fusione di elementi, architettonici e di paesaggio urbano e culturale, di diverse città e cittadine piccole e grandi della Sicilia sudorientale. Qui a Modica, a fianco del Duomo di San Giorgio, abbiamo niente di meno che la casa di Pasquano, il medico legale amico e collaboratore di Montalbano, che nella realtà è palazzo Polara, il palazzo settecentesco dell’omonima famiglia nobile modicana, che ha la stella polare nel suo stemma. Polara, a Modica, è anche una marca di bibite: famosa per la gassosa che iniziò a produrre nei primi anni ’50, oggi produce anche chinotto e varie bibite agli agrumi di Sicilia. Ma non è tutto: qui c’è anche la fermata dell’autobus dove il commissario viene a prendere la sua eterna fidanzata, la paziente e misteriosa Livia, quando lei arriva a Vigata. Noi ovviamente non siamo qui per questo (esiste anche un turismo specificamente “Camilleriano”) però, chi più chi meno, abbiamo visto tutti almeno qualche puntata del Montalbano televisivo. Ma il vero appassionato del gruppo è Roberto, che invece conosce a menadito praticamente tutti i libri dedicati al commissario, ma non lo guarda in TV se non sporadicamente perché teme di rimanere deluso dal confronto con la ricchezza immaginifica della scrittura di Camilleri. Che dire, davvero controcorrente: chapeau.

Palazzo Polara
Dopo un breve conciliabolo, decidiamo che abbiamo ancora le forze per andare a vedere, prima che chiuda, anche la casa natale di Quasimodo, dentro la quale è stato ricavato un piccolo museo. Ebbene sì, abbiamo scoperto che il poeta è nato proprio qui, parecchi secoli dopo Ibn Hamdis, precisamente il 20 agosto 1901. Anche se pare che, con una certa ingratitudine, spesso dichiarasse di essere nato a Siracusa.
A Modica, comunque, ci rimase ben poco. Salvatore era il secondogenito di Gaetano Quasimodo (1867 – 1960) e Clotilde Ragusa (1877 – 1950) e la famiglia paterna era originaria di Roccalumera (in provincia di Messina). Fu a Roccalumera che il piccolo Salvatore fu battezzato (l’11 settembre 1901) e fu in quella cittadina del messinese che Clotilde e i figli trovarono rifugio dall’alluvione che, nella notte tra il 25 e il 26 settembre del 1902, aveva colpito Modica. Ma il peregrinare della famiglia Quasimodo era incessante: seguivano, infatti, i frequenti spostamenti del padre che, come ferroviere, veniva trasferito da una stazione all’altra. I Quasimodo si stabilirono così nella già citata Roccalumera, a Gela, ad Acquaviva e Trabia. Dopo il devastante terremoto che colpì Messina il 28 dicembre 1908, ai primi di gennaio del 1909 Gaetano Quasimodo ebbe l’incarico di riorganizzare la stazione ferroviaria della città dello Stretto e la famiglia lo seguì vivendo, i primi tempi, in un carro merci ferroviario, in quanto la città era stata quasi del tutto rasa al suolo. Quasimodo poi visse in diverse città d’Italia, ma non tornò mai a Modica se non per brevi soggiorni.
Nei due ambienti principali (lo studio milanese e la camera da letto) sono custoditi mobili e oggetti appartenuti al grande letterato e si ha l’occasione di ammirare fotografie autografate, edizioni speciali delle opere di Salvatore Quasimodo, cimeli appartenuti al poeta e testimonianze della grandezza delle sue opere.
La sala di lettura si trova accanto alla camera da letto. È arredata con comode poltrone e in essa si ha la possibilità di consultare e leggere le opere di Quasimodo.
La sala multimediale, vicino all’ingresso, è dedicata al Premio Nobel e vi si possono vedere alcuni video, tra cui quello riguardante la cerimonia della consegna del Premio Nobel a Stoccolma.
Noi curiosiamo un po’ qua e là, ascoltiamo nella sala multimediale alcune delle più celebri poesie di Quasimodo lette dal poeta stesso e guardiamo il video della consegna del Nobel nel 1959.
Dopo cena, ci concediamo uno struscio su Corso Umberto e ci fermiamo a bere qualcosa proprio davanti alla scalinata del duomo di San Pietro, dove suona un gruppo di musica popolare. Purtroppo noi arriviamo un po’… sul tardi e quindi riusciamo ad ascoltare solo tre pezzi, tra cui spicca il celeberrimo classicone siciliano Ciuri Ciuri (ma c’è anche un classicone salentino in grico, Kali Nifta).
Dopo di che, possiamo anche andare a dormire… domani ci aspetta Noto.
(TO BE CONTINUED…)
Grazie infinite a Rosellina, Graziana e Carmela de “I tetti di Siciliando” e a Sabrina, la nostra super-guida arabo-normanno-spagnola-sangiorgiana.
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