Viaggio nella Sicilia sudorientale alla scoperta di un ricchissimo patrimonio naturalistico, archeologico, artistico e culturale, senza dimenticare quello gastronomico, perché qui più che mai il cibo è cultura…
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Mercoledì 12 agosto 2020 – Ragusa e il laboratorio di arancini

Oggi andiamo a Ragusa, un’altra città siciliana che ancora non conosco e che, da quello che ho letto, potrebbe rivelarsi davvero interessante. Le macchine le abbiamo riconsegnate, quindi ci andremo in autobus. Conviene, perché la distanza non è molta e gli autobus AST sono frequenti. C’è, però, un piccolo intoppo: il bar dove entriamo, che è anche una rivendita di biglietti AST, ha qualche problema che, al momento, impedisce di stampare i biglietti. Ci consigliano, invece, di fare ognuno una foto col cellulare della schermata che corrisponde al suo biglietto, con il numero e tutto, e di mostrarla al posto del biglietto. Pare che così, data la situazione di emergenza, ce li accetteranno comunque. È una procedura strana, ma eseguiamo. L’autobus arriva puntuale, effettivamente non ci fanno problemi e in meno di mezz’ora siamo in città. La città alta, perché sappiamo che anche Ragusa, come Modica, ha una città alta e una bassa.

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Ieri sera ci siamo fatti un nostro percorso sulla mappa e anche se all’inizio, nonostante la mappa cartacea e Google Maps, facciamo un po’ fatica a orientarci, una volta trovata la strada con una breve passeggiata raggiungiamo la cattedrale di Ragusa alta, cioè il Duomo di San Giovanni Battista. Ebbene sì, anche qui ci sono due duomi. La storia è che anche Ragusa, come le altre città della zona, fu distrutta dal terremoto del 1693. Qui però accadde il contrario di quello che accadde a Noto: la città nuova sorse non più giù, verso il mare, ma più su, su un altopiano che domina la città vecchia. Ma gli appartenenti alla vecchia aristocrazia ragusana, che non volevano saperne di abbandonare i traballanti palazzi dei loro antenati, ricostruirono Ragusa Ibla, cioè l’antica Ragusa, esattamente nello stesso posto. Solo nel 1927 i due nuclei furono fusi in un’unica città, che è quella che vediamo oggi e che ha circa 74.000 abitanti.
Ma andiamo con ordine. Le origini di Ragusa risalgono al neolitico, esattamente alla cultura di Castelluccio; i primi insediamenti sono datati al XX secolo a.C. e la città ha da sempre ricoperto un ruolo fondamentale nella storia dell’isola. Se l’antica Hybla Heraia – la cui ubicazione è attualmente sconosciuta – fosse corrisposta al territorio di Ragusa, ad essa si potrebbe legare la leggenda che narra del re siculo Hyblon, fondatore di un primo nucleo abitativo dopo aver scacciato gli antichi sicani, meno progrediti rispetto ai siculi. Essa sarebbe stata più volte assediata dai greci, ma inutilmente.
In seguito, sotto i Romani, Ibla sarebbe diventata una città decumana (ma non vi è accordo su questo punto) insieme a Modica: erano obbligate cioè a pagare la decima parte dei raccolti; ciò fa pensare ad un trattamento di favore, probabilmente dovuto al fatto che le città si arresero senza combattere.
I bizantini costruirono un ampio muro di cinta a Ibla intorno al 700 d.C., così gli arabi provarono più volte ad espugnare la città ma la conquistarono solo nell’848 dopo varie ed estenuanti guerre contro le popolazioni iblee; nell’866 d.C. la popolazione iblea espulse gli arabi da tutto il territorio a causa di una violenta ribellione, ma nell’878 la città venne nuovamente riconquistata. Durante la dominazione araba si formarono decine e decine di casali, coltivazioni, terrazzamenti. In poco meno di 200 anni gli arabi diedero un impulso grandioso all’agricoltura. Nel 1090, un’imponente rivolta popolare supportata da spie normanne scacciò definitivamente gli arabi da tutto il ragusano. Dal periodo normanno, tranne per qualche breve interruzione, la città fu per più di cinquecento anni amministrata autonomamente da vari conti, anche all’interno di altre dominazioni come quelle angioine e aragonesi. Durante il periodo svevo la città fu incorporata nel demanio, tuttavia alcuni privilegi furono ristabiliti grazie al re Federico II. Gli angioini, invece, amministrarono la Sicilia e Ragusa in modo pessimo e furono cacciati grazie ai famosi vespri Siciliani. In seguito a ciò, sotto gli aragonesi, Ragusa riacquistò l’antica autonomia. La contea di Ragusa si fuse con la contea di Modica nel 1296 grazie a Manfredi I Chiaramonte, che prese in sposa Isabella Mosca, figlia del Conte di Modica. Nel 1366, con Manfredi III Chiaramonte, la contea raggiunse il massimo splendore con l’acquisizione delle terre di Terranova e di tutto l’arcipelago maltese. La Contea di Modica godeva di un’amministrazione autonoma del tutto separata dal governo di Palermo; nessun re aveva diritto a governarla, ma solo il conte. Divenne dunque fra gli stati feudali italiani più importanti.
L’11 gennaio 1693 il devastante terremoto distrusse l’antica città e causò circa cinquemila morti su una popolazione di tredicimila abitanti. Questo determinò, appunto, la ricostruzione dell’intera città dando origine allo splendido barocco che caratterizza tutto il Val di Noto. Venne ricostruita Ragusa Ibla mentre sull’altopiano veniva costruita Ragusa Alta. Del vecchio borgo medievale rimase solo la conformazione urbanistica, fatta di strade strette, scale e vicoli, una parte delle mura bizantine presso la Chiesa del Santissimo Trovato e il portale in stile gotico del vecchio duomo di San Giorgio.
Agli inizi del XX secolo anche nel ragusano si diffusero le idee socialiste in modo particolarmente forte: da molti storici fascisti Ragusa fu descritta come “un feudo dei rossi, non dissimile da quello di Bologna”. Più tardi, a causa di una forte dialettica politica, a Ragusa si impose il fascismo, provocando una risposta violenta. Il 29 gennaio 1921 un gruppo di fascisti distrusse il circolo socialista di Vittoria, uccidendo un uomo e ferendone dieci; due mesi dopo a Ragusa furono uccise quattro persone e sessanta rimasero ferite. Promotore dell’ideologia fascista nel ragusano fu in particolare Totò Giurato, nonno del conduttore televisivo Luca Giurato. Costui, all’indomani del primo conflitto mondiale, si arruolò negli Arditi d’Italia e seguì D’Annunzio nell’impresa fiumana, tornando nella città iblea imbevuto del mito della vittoria mutilata. La città fu la prima siciliana ad avere dato vita a un movimento fascista, a tal punto che nella Torre littoria edificata per volere dello stesso Mussolini fu incisa la seguente frase: “Fascismo ibleo Tu primo a sorgere nella generosa terra di Sicilia”. Nel 1927, grazie a Filippo Pennavaria, noto esponente fascista, Ragusa divenne capoluogo dell’omonima provincia, a scapito di Modica, e contemporaneamente aggregò il limitrofo comune di Ragusa Ibla.
Durante la Seconda Guerra Mondiale la città fu scossa improvvisamente dai bombardamenti, a partire dal 1942 e per tutto il 1943, a causa della presenza dell’aeroporto militare di Comiso; dalla sua pista partivano i cacciabombardieri dell’Asse. Nel 1943 la costa iblea fu poi teatro dello Sbarco in Sicilia da parte degli Alleati, ritornando comunque rapidamente alla normalità alla fine della guerra.
L’origine del nome Ragusa deriverebbe dal greco Rogos ovvero granaio, dovuto alla ricchezza agricola della zona. Durante il dominio arabo, il nome divenne Ragus o Rakkusa che in arabo significa “luogo famoso per un sorprendente avvenimento”, probabilmente una battaglia. Infine in epoca normanna e aragonese venne latinizzato in Ragusia, per poi diventare alla fine del XVIII secolo Ragusa.
Heraea a sua volta verrebbe da una presunta identificazione dell’abitato con l’antica colonia greca di Hybla Heraia, la cui effettiva ubicazione non è mai stata accertata. Tuttavia, a partire dal XVII secolo si è cercato di localizzarla proprio in Ragusa. La tradizione seicentesca, mai confermata, ha dato successivamente nome al quartiere antico della città che viene chiamato Ibla o Ragusa Ibla.
La nostra visita parte però dalla città alta, e precisamente dal Duomo di San Giovanni Battista.
La chiesa, prima del terremoto del 1693, sorgeva nella parte ovest dell’antico abitato di Ragusa sotto le mura del castello medievale, dove oggi si trova la chiesetta di Santa Agnese. Gravemente danneggiata dal sisma, venne riedificata al centro del nuovo abitato di Ragusa nella contrada del “Patro”. Il 15 aprile del 1694 fu posta la prima pietra e dopo appena quattro mesi la chiesa era completa, tanto che il 16 agosto fu aperta al culto con una solenne cerimonia cui presenziarono tutti i maggiorenti della Contea. Il breve tempo occorso per la costruzione indica che si trattava di una piccola chiesa, inadeguata alle esigenze del nuovo quartiere della città in espansione.
Pertanto furono i sangiovannari a ricostruire per primi un proprio luogo di culto, circostanza che alimentò l’acredine e fomentò le diatribe nei confronti dei sangiorgiari, arroccati nella primitiva parte di città. Eccoci qua, anche qui due fazioni da sempre in contrasto come a Modica: qui sono sangiovannari e sangiorgiari (il duomo di Ragusa Ibla è intitolato a San Giorgio); qui, per di più, un evento sismico aveva ribaltato la supremazia dei luoghi.
Ah, se non vi ricordate delle due fazioni di Modica… vuol dire che dovete leggere (o rileggere) il capitolo 1: Barocco e cioccolato – 1.
L’emancipazione della chiesa di San Giovanni avvenne nel 1714. Pertanto ne fu decretato l’ingrandimento e nel 1718 si iniziò, quindi, la costruzione nello stesso sito di una chiesa più grande. Nel 1783 fu innalzata la cupola, ricoperta poi all’esterno di lamine di rame durante il XX secolo. Nel 1848 fu rinnovata la pavimentazione mediante l’utilizzo di lastre di pietra pece, impreziosite da intarsi geometrici in pietra calcarea. La pavimentazione è in effetti una delle cose più belle di questa chiesa.
I continui ricorsi di entrambi i rettori delle due fazioni alla Congregazione dei Riti presso la Santa Sede determinarono il 10 dicembre 1865 la divisione civile del comune: due distinti sindaci, due duomi, l’esplicito riconoscimento di due correnti, due arcipreture ciascuna col suo santo patrono: San Giovanni Battista per Ragusa, San Giorgio per Ragusa Ibla.
Il 6 maggio 1950 la chiesa fu elevata alla dignità di cattedrale della diocesi di Ragusa, territorio ecclesiale staccato dall’arcidiocesi di Siracusa. Tra il 1992 e il 1995 sono state realizzate campagne di restauro dell’intero edificio.
La maestosa facciata, ricca di intagli e sculture e divisa in cinque partiti da grandi colonne su alti basamenti e da caratteristiche lesene bugnate che si ripetono anche nei lati della costruzione, è arricchita da tre portali: quello centrale è ornato da colonne e statue di pregevole fattura che rappresentano l’Immacolata, il Battista e San Giovanni Evangelista. Davanti si apre un ampio sagrato, sopraelevato rispetto alla piazza sottostante e cinto da una balaustra in pietra pece costruita nel 1745.

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Duomo di San Giovanni Battista

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Duomo di San Giovanni Battista

L’interno, a croce latina, con presbiterio absidato, è in pietra pece, oggi intonacato, con capitelli riccamente scolpiti dal capomastro Carmelo Cultraro nel 1731 e successivamente dorati. Sopra le colonne si trovano grandi cartigli con i versetti della Sacra Scrittura che si riferiscono a Giovanni il Battista, scolpiti nella pietra calcarea da Crispino Corallo nel 1741, a cui successivamente vennero aggiunti gli angeli in stucco. Tra il 1776 e il 1777 Giuseppe Gianforma ed il figlio Gioacchino decorarono con pregevoli stucchi dorati di gusto rococò le volte delle navate e del presbiterio e nelle pareti dei transetti realizzarono delle grandi nicchie circondate da statue.
Nella Cappella dedicata a San Giovanni Battista si trova la statua lignea del santo opera del maestro ragusano Carmelo Licitra, detto “Giuppino” (1861). Lo scultore trasse ispirazione dalla realtà e immaginando il santo, ramingo nel deserto, volle ritrarlo con i lineamenti duri e severi, scavati dal sole e dall’inedia. La leggenda narra che trasse spunto dal volto di un mendicante che si aggirava nei pressi della Cattedrale e che scomparve subito dopo aver ispirato l’artista, tanto da far pensare ad un segno divino.
Impressionanti anche gli enormi ficus che si possono vedere nel cortile.

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Duomo di San Giovanni Battista – Interno

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Duomo di San Giovanni Battista – Interno

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Duomo di San Giovanni Battista – L’organo

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Cappella di San Giovanni Battista

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Duomo di San Giovanni – Cortile

Lasciata la Cattedrale, si inizia la discesa verso Ragusa Ibla: lungo la scalinata si possono ammirare la chiesa di Santa Maria dell’Itria con la cupola del campanile decorata con maioliche blu, riedificata nella sua forma attuale tra il XVII e il XVIII secolo, e gli incredibili balconi barocchi di Palazzo Cosentini, restaurato nel 2010.

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Il campanile di Santa Maria dell’Itria

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I balconi di Palazzo Cosentini

Si arriva poi nella piazzetta della Chiesa delle Anime Sante del Purgatorio, che merita anch’essa una breve visita, non senza aver prima fatto una sosta per la nostra consueta granita di metà mattina. La piazza sarebbe in realtà Piazza della Repubblica, meglio conosciuta come piazza degli Archi (per i ragusani semplicemente l’Archi) a causa degli archi di un acquedotto che sormontavano il quartiere fino al terremoto del 1693, da cui la chiesa uscì indenne.

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La chiesa è edificata in stile tardo-barocco con un impianto basilicale a tre navate. Fu edificata nella seconda metà del XVII secolo e fu una delle poche chiese ragusane a resistere al terremoto. Nel 1694 divenne chiesa sacramentale, ovvero tempio in cui si potevano amministrare i sacramenti per conto della chiesa di San Giovanni, l’attuale chiesa cattedrale, trasferitasi nel nuovo quartiere in costruzione nella contrada Patro. A causa delle ridotte dimensioni, sole due navate, nel 1740 la chiesa fu ricostruita con un impianto basilicale a tre navate, terminate da due cappelle e da un ampio presbiterio con abside.
La facciata della chiesa delle Anime Sante, come anche quella di molte altre chiese di Ragusa e dello stesso Duomo di San Giorgio, è caratterizzata da una ripida scalinata che ne valorizza e arricchisce il prospetto, costituita da due ordini coronati da un timpano. Il primo ordine è diviso in tre parti da colonne con capitelli corinzi che poggiano su alti basamenti. Nel settore centrale si trova il portale d’ingresso, con intagli a motivi vegetali, nel cui coronamento vi sono sculture raffiguranti le Anime Purganti. Nei settori laterali si trovano due finte porte, in cui il portale non presenta alcun ingresso per accedere alla chiesa, a significare che la via per il paradiso è una ed una sola. Sul fianco destro della chiesa, si trova un grande contrafforte ad arco che scavalca via Aquila Sveva, costruito probabilmente dopo il terremoto per sostenere l’edificio.

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Chiesa delle Anime Sante del Purgatorio

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Chiesa delle Anime Sante del Purgatorio – Interno

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Altare opera di maestranze siciliane con statue di Sant’Agata, San Rocco e Santa Lucia

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Statua di Santa Barbara

Continuiamo la discesa e giriamo un po’ per le strade di Ragusa Ibla, per poi visitare il Duomo di San Giorgio, una delle massime espressioni dell’architettura sacra barocca. La chiesa antica sorgeva all’estremità est dell’abitato, dove si trova ancora l’antico portale. Fu riedificata al posto della chiesa di San Nicola, che fino al XVI secolo era stata di rito greco. Il progetto, del quale venne incaricato il grande architetto Rosario Gagliardi e di cui si conservano tuttora le antiche tavole originali, è caratterizzato dalla monumentale facciata a torre che ingloba anche il campanile nel prospetto e termina con una cuspide a bulbo. La sua collocazione al termine di un’alta scalinata e la sua posizione obliqua rispetto alla piazza sottostante ne accentuano l’imponenza e gli effetti plastici. La cupola di gusto neoclassico a doppia calotta, poggiante su due file di colonne, sarebbe stata progettata dal capomastro ragusano Carmelo Cultraro, ispirandosi alla cupola del Pantheon di Parigi. All’interno si trovano le statue del Gagini e si trova inoltre il capolavoro della ditta Serassi che lo volle chiamare Organum Maximum in quanto sintesi della migliore arte organaria all’epoca esistente, costruito tra il 1881 e il 1882 e composto da 3368 canne. Sopra le porte laterali sono conservati i due simulacri che vengono portati in processione per le strade durante la festa patronale di San Giorgio: la statua del Santo a cavallo opera dello scultore palermitano Bagnasco, che la realizzò nel 1874, e la grande cassa-reliquiario in lamina d’argento sbalzata, opera del 1818 dell’argentiere palermitano Domenico La Villa. Le finestre della navata centrale sono chiuse da vetri colorati, artisticamente istoriati: in tutta la chiesa ve ne sono ben 33, raffiguranti 13 episodi del Martirio di San Giorgio, 6 figure di Santi e 14 simboli vari.

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Duomo di San Giorgio

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Duomo di San Giorgio – Interno

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La statua di San Giorgio

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La cassa-reliquiario di San Giorgio

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L’Organum Maximum

Facciamo appena in tempo a visitare la chiesa prima della chiusura, dopo di che anche noi andiamo a pranzo. Scoviamo casualmente un posticino interessante che si chiama Risiu (desiderio) e che è un “Ricotta bar”, evoluzione del classico caseificio con degustazione: il giovane proprietario si presenta in effetti come un vero casaro, che ha aperto questo locale per far assaporare tutto il buono della cucina casearia, dal produttore al consumatore, con l’aggiunta dell’esperienza e dell’innovazione in cucina. Al centro di tutto c’è la ricotta calda, che è come abbiamo già avuto modo di capire un prodotto tipico di questa zona e tipico è anche questo modo di consumarlo. Non mancano ovviamente altri formaggi, dal fresco allo stagionato, accompagnati da confetture, studiate per creare il connubio perfetto tra dolce e salato. L’idea sarebbe di fare uno spuntino leggero, ma i taglieri per la degustazione, sia nella versione “saporita” che in quella “delicata”, sono allettanti, e quindi ci facciamo tentare. Non ci sono solo formaggi, ma anche salumi, verdure grigliate e altri stuzzichini a base di focaccia ripiena, simili probabilmente alla scaccia modicana, che stasera dovremmo provare a fare noi insieme agli arancini.

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Peccato non poter provare anche i cannoli, che in un “ricotta bar” dovrebbero essere veramente di livello, ma il tempo che abbiamo non è molto e vorremmo vedere ancora qualcosina prima di prendere l’autobus urbano che ci riporterà a Ragusa Alta (il ritorno sarebbe in salita e quindi abbiamo scelto questa soluzione). Ci sta comunque un giretto nel giardino Ibleo, che è il più antico dei quattro giardini di Ragusa, intorno alla villa che fu costruita nel 1858 per iniziativa di alcuni nobili locali e di buona parte del popolo, che – sembra – lavorò gratuitamente per la realizzazione dell’opera. L’ingresso è costituito da un magnifico viale fiancheggiato da numerose palme, è ben curato e adornato con panchine scolpite, colonne con vasi in pietra scolpiti in forme diverse e una elegante balconata con recinzione in pietra calcarea. All’interno si trovano la chiesa di San Vincenzo Ferreri, la chiesa di San Giacomo e la chiesa dei Cappuccini.

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Qui vicino si può ancora vedere anche l’antico Portale di San Giorgio, che è il monumento simbolo della città di Ragusa; fu edificato in stile gotico nella prima metà del XII secolo come parte della chiesa di San Giorgio ora scomparsa. È costruito con blocchi di calcare tenero, dal tenue colore rosato. La lunetta sopra l’architrave rappresenta il santo cavaliere che trafigge il drago, con la regina di Berito inginocchiata che assiste alla scena. L’arco è contenuto tra due lesene scanalate e lo spazio superiore è arricchito da due grandi losanghe, all’interno delle quali alloggia l’aquila ragusana. Gli interstizi tra le colonne dell’arco sono ornati da figure che rappresentano le arti e i mestieri e lungo tutta la superficie da una teoria di figure mostruose e immaginarie, tra fiori e foglie, eredità dei bestiari medievali.

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Antico Portale di San Giorgio

L’antico simbolo della popolazione Iblea era la lucertola, che deriva dalla famosa Ibla Galeota o Herea. I camarinensi, discendenti dei siculi Iblei, coniavano infatti monete raffiguranti effigi di lucertole, allegoria dei Galeoti o Iblei. Un altro simbolo fu probabilmente anche l’effigie di una donna con testa turrita circondata da api, rappresentante il famoso miele ibleo. Con l’arrivo dei conti normanni, la città acquisì come simbolo l’aquila allocata nella croce di San Giorgio. Tuttora questa bandiera viene utilizzata come bandiera d’Ibla e per la festa di san Giorgio, quella detta ballariata in cui i sangiorgiari ragusani ballano con la statua del santo sulle spalle; ce ne aveva parlato Sabrina a Modica, associandola all’altra festa altrettanto delirante secondo i canoni della religiosità “nordica” che si svolge appunto per San Giorgio a Modica Alta. Curioso anche questo fatto che, sebbene a Modica il Duomo di San Giorgio sia nella città alta e qui in quella bassa, in entrambe le città i sangiorgiari siano in qualche modo i custodi della parte più antica della città e delle sue più antiche tradizioni.

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Verso le tre e mezza prendiamo l’autobus per tornare a Ragusa Alta e, da lì, l’altro autobus per tornare a Modica. Dobbiamo avere il tempo di rilassarci e rimetterci in forze perché nel tardo pomeriggio abbiamo un impegno che richiederà tutta la nostra energia e concentrazione: il laboratorio di arancini (o arancine? Lo scopriremo dopo…).
Salendo sul bus AST per Modica, piccolo contrattempo: l’autista trova piuttosto strano che noi si voglia salire mostrando come biglietto una foto sul cellulare, e in linea di massima non si può dargli torto. Ovviamente non è informato del problema che abbiamo avuto stamattina. Però a noi era stato detto che così andava bene, e in fondo abbiamo comunque ognuno un numero del biglietto, quindi non dovrebbe essere difficile verificare. Gli proponiamo di chiamare il bar-tabacchi che ci ha fatto i biglietti, ma lui – forse giustamente dal suo punto di vista – sostiene che non è compito suo e ci tiene a dichiarare che “per lui” siamo senza biglietto, poi sarà qualcun altro a doversene occupare in caso di controllo. Mentre guida chiama invece il suo ufficio, con cui inizia un dialogo in dialetto sempre più animato di cui possiamo intuire i contenuti, anche sentendo solo quello che dice lui. Ci tiene a dire che non ce l’ha con noi che siamo “persone di fuori”, ma semmai con il gestore del bar che fa fare alla sua società la figura di un’azienda disorganizzata. In realtà, comunque, arriviamo a Modica senza che nessuno ci controlli e tutto finisce lì.
Arriviamo a Modica che è ancora abbastanza presto e quindi decidiamo di fare di una passeggiata e di concederci uno… spuntino dolce pomeridiano. Rosellina ci ha consigliato un posto che Giulio ha già… testato per noi e anche lui conferma che vale la pena, e oggi purtroppo è l’ultimo giorno qui, perciò è l’ultima occasione. Si tratta di una gelateria che è un po’ fuori dal centro, bisogna percorrere tutto il corso e andare oltre una rotonda che è una sorta di spartiaccque, come delle Colonne d’Ercole che generalmente i turisti non oltrepassano; qui la clientela è quasi esclusivamente “local”. Il posto si chiama “Come una volta” ed è frutto di una precisa scelta del proprietario, che prima aveva un bar sul corso, nel pieno della zona della “movida” modicana, ma a un certo punto ha preferito spostarsi qui per lavorare in un altro modo, con ritmi più accettabili e puntando sulla qualità, non sulla quantità. Anche adesso, infatti, i tavoli all’aperto sono tutti liberi. Il risultato è qui davanti ai nostri occhi: gelati artigianali e granite per tutti i gusti, ma la vera chicca è forse la cremolata (che è una granita dalla consistenza più fine e cremosa, con pezzi di frutta), in particolare la cremolata di fichi, con noci e scagliette di cioccolato di Modica… puro piacere.

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La cremolata di fichi

Dopo di che, possiamo davvero tornare a casa per riposarci prima… della battaglia.
Ed eccoci qua: tutto è pronto per il tanto atteso laboratorio di arancini, che si svolgerà proprio qui nel nostro B&B. Saremo guidati dalle sapienti mani di Graziana e Carmela, che hanno già cucinato per noi tutti i manicaretti che ci siamo allegramente scofanati in questi giorni. Gli ingredienti sono già tutti sul tavolo: riso (ovviamente va cotto prima, al dente e fino a completo assorbimento, ma non possiamo fare proprio… tutto noi. No?), uova (fresche e sode), pan grattato, carne trita, piselli e formaggio (mozzarella o caciocavallo). E noi siamo tutti belli e pronti, con le mani lavate e il nostro bravo grembiulino. Io nutro pochissima fiducia nelle mie capacità in cucina e lo dichiaro subito, anche per mettere… le mani avanti: così tutto quello che viene sembrerà comunque già un mezzo miracolo.

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Prima di iniziare, però, non può mancare un’introduzione a carattere storico-cultural-antropologico: non è che possiamo mettere subito le mani in pasta (anzi… in riso) senza sapere cosa stiamo facendo, chi siamo e da dove veniamo mentre lo stiamo facendo. Se ne incarica Graziana (chi meglio di lei?) che ci spiega innanzitutto che l’origine dell’arancino è… è… 3… 2… 1… se vi piace vincere facile ok, avete vinto, tanto non si vince niente: è araba. Ebbene sì, gli arabi hanno inventato anche questo. Perché? Cosa ce lo fa pensare? Be’, è certamente araba l’usanza di mangiare tutti insieme intorno a un grande piatto, prendere un pugno di riso con una mano, condirlo con la carne (generalmente di agnello) e con le verdure e portarlo alla bocca. Ed è arabo-persiana anche l’usanza di condire il riso con lo zafferano. La sua forma l’arancino l’avrebbe presa ai tempi di Federico II (secolo XIII), e lo scopo sarebbe stato (è sempre giusto usare il condizionale) quello di renderlo trasportabile e conservabile, creando un involucro. Il condizionale è d’obbligo perché nei ricettari l’arancino/arancina (scioglieremo il dubbio più avanti) compare solo molto dopo, intorno al 1850. Ma tutte queste cose ve le farei spiegare direttamente da lei, è meglio:

 

E ora veniamo, per restare all’ambito antropologico, filologico e glottologico, al dubbio sul genere: è arancino (masculu) o arancina (fimmina)? Devo deludervi. Pensavamo di poter sciogliere il dubbio, invece in realtà… tutte e due. E, lo giuro, non è per voler essere filo-LGBTQ o propagandare la fantomatica terrificante teoria del “gender”: è proprio così. Sì, perché in genere, nella parte occidentale dell’isola questa specialità è conosciuta come “arancina”, mentre nella parte orientale è chiamata “arancino”. Tuttavia, il termine “arancina” è altrettanto prevalente in alcune zone delle province di Ragusa e Siracusa, così come “arancino” lo è nelle province di Enna e Messina.
Secondo lo scrittore Gaetano Basile la pietanza dovrebbe essere indicata al femminile, in quanto il nome deriverebbe dal frutto dell’arancio, l’arancia appunto, che in lingua italiana è declinato al femminile. Tuttavia in siciliano la declinazione al femminile dei frutti non è frequente quanto in italiano, e nel caso specifico l’arancia viene detta arànciu; pertanto il nome risulta originariamente al maschile (arancinu), come testimoniato dal Dizionario siciliano-italiano del palermitano Giuseppe Biundi, che nel 1857, al lemma arancinu, scrive: “[…] dicesi fra noi [in Sicilia] una vivanda dolce di riso fatta alla forma della melarancia”. A sua volta, il termine italiano arancino deriverebbe dal siciliano arancinu.
Sull’argomento si è espressa anche l’Accademia della Crusca, affermando appunto la correttezza di entrambe le diciture, sebbene la forma maschile continui a essere indicata da tutti i moderni dizionari della lingua italiana.
La prima documentazione scritta che parli esplicitamente dell’arancino in qualità di pietanza è proprio il Dizionario siciliano-italiano di Giuseppe Biundi del 1857, che però ne parla come di una “vivanda dolce”. Questo dato può indurre a credere che l’arancino nasca come dolce, presumibilmente durante le festività in onore di santa Lucia, e solo in seguito divenga una pietanza salata. In effetti pare che i primi acquisti di uno degli elementi tipici costituenti l’arancino salato, il pomodoro, siano datati al 1852, cinque anni prima dell’edizione del Biundi: la diffusione di tale ortaggio e il suo uso massiccio nella gastronomia siciliana si deve ipotizzare sia successiva a tale data e – verosimilmente – nel 1857 non era ancora divenuto parte dell’arancino. L’assenza di riferimenti precedenti al Biundi potrebbe in realtà essere indice di una relativa “modernità” del prodotto, certamente comunque nella sua versione salata.
Sull’origine della versione dolce pure permangono notevoli dubbi: l’accostamento con santa Lucia e i prodotti tipici legati ai suoi festeggiamenti apre diverse possibilità di interpretazione. A Palermo, secondo la tradizione, nel 1646 approdò una nave carica di grano che pose fine ad una grave carestia, evento ricordato con la creazione della cuccìa, un prodotto a base di chicchi di grano non macinato, miele e ricotta. Non è impensabile quindi che i primi arancini dolci siano una versione da trasporto della stessa cuccìa. In merito al legame tra i due prodotti e i festeggiamenti luciani, ancora oggi il 13 dicembre di ogni anno è tradizione palermitana e di tutta la Sicilia festeggiare il giorno di santa Lucia, in cui ci si astiene dal consumare cibi a base di farina, mangiando arancini (di ogni tipo, forma e dimensione).
Già, la forma: non c’è accordo neanche su quella, in realtà, tra le due parti dell’isola: nella Sicilia occidentale, dove come detto si preferisce il femminile arancina, la forma è tonda; invece qui nella Sicilia orientale, dove in genere si preferisce arancino al maschile, la forma, come ci spiega Graziana, è più a cono, con una bella punta ben pronunciata. Si pensa che questo sia dovuto a un’ispirazione data dall’Etna: infatti, tagliando la punta dell’arancino appena cotto esce il vapore che ricorderebbe il fumo del vulcano, mentre il rosso del contenuto e la superficie croccante della panatura ne rievocherebbero la lava nei suoi due stadi, calda e fredda. Nel catanese, la forma del prodotto ha generato un accostamento con le persone corpulente, definite con tono di scherno arancinu che’ peri (arancino con i piedi, ossia arancino che cammina).
Anche nella letteratura appaiono diversi riferimenti a questo prodotto gastronomico: il più popolare di tutti si trova – e dove se no? – in Montalbano, nella finzione letteraria noto estimatore degli arancini. La prima raccolta di Camilleri dedicata al commissario è persino intitolata “Gli arancini di Montalbano”.
Abbiamo detto che qui, nella Sicilia orientale, l’arancino è a cono e quindi noi lo faremo così, a punta: sarà ancora più difficile. Un’altra differenza sostanziale con Palermo e dintorni è che lì il riso è giallo, perché si usa lo zafferano, mentre qui si usa un po’ di sugo di pomodoro, e quindi il riso prende un leggero color rosso, come quello che abbiamo qui nel piatto di portata. Va da sé che noi lo faremo così, al pomodoro.
Riguardo alle tipologie, è chiaro che ce ne sono svariate: quello al ragù di carne, quello al burro (con mozzarella, prosciutto e, a volte, besciamella) e quello agli spinaci (condito anch’esso con mozzarella). Inoltre, nel catanese sono diffusi anche l’arancino “alla norma” (con melanzane, detto anche “alla catanese”) e quello al pistacchio di Bronte. La versatilità dell’arancino è stata sfruttata per diverse sperimentazioni. Esistono infatti ricette dell’arancino che prevedono l’utilizzo di funghi, salsiccia, gorgonzola, salmone, pollo, pesce spada, frutti di mare, pesto, gamberetti nonché del nero di seppia. Ma quello che faremo noi, con pomodoro, piselli, carne e formaggio (volendo anche un po’ di uovo sodo), è quello più legato alla tradizione di questa parte dell’isola.
Si parte dalle uova, rompendole e sbattendole per creare quello che poi servirà per inumidire la panatura. Altra operazione preliminare necessaria è quella di tagliare il caciocavallo a cubetti. Poi iniziamo a fare delle palle di riso, della grandezza voluta, che devono essere poi un po’ appiattite per creare la cavità nella quale viene messo il ripieno: carne, piselli e formaggio. Dopo di che si prende un’altra manciatina di riso per chiudere il buco e si dà all’arancino la forma finale, quella del vulcano. È fondamentale avere vicino una ciotola d’acqua per potersi bagnare le mani ogni tanto. Questa è la fase dove possiamo anche esercitare la nostra creatività: c’è chi lo fa particolarmente panciuto e chi molto a punta, e c’è chi lo fa con la punta un po’ storta per… firmarlo in modo che sia riconoscibile anche dopo essere stato fritto insieme a tutti gli altri. Il tocco dell’artista. Una volta rifinito, l’arancino va bagnato nell’uovo sbattuto e poi rotolato per bene nel pan grattato in modo che si crei una panatura uniforme. Ne facciamo almeno un paio a testa, dovranno bastare per questa sera: l’idea è che faremo una cena… street food, sia pure seduti comodamente a tavola, con quello che avremo prodotto. Devo dire che alla fine i miei arancini non sono neanche venuti così male, ho ricevuto perfino dei complimenti, anche se probabilmente erano un po’ di incoraggiamento e un po’ frutto del mio aver messo le mani avanti preventivamente.

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Una mia rara immagine in versione cuciniera

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Noi allora passiamo alla preparazione di alcuni stuzzichini che sono basati sul concetto della scaccia modicana, uno street food ancora più “local” dello stesso arancino. La base della scaccia è una sfoglia di pasta di grano duro non lievitata e lavorata fino ad ottenere una pasta molto sottile. I condimenti più tipici usati sono quelli con ricotta e salsiccia con cipolla, pomodoro e caciocavallo, oppure prezzemolo e acciughe, senza dimenticare pomodoro e melanzane fritte. Si cospargono i vari ingredienti in maniera uniforme sulla pasta, che va ripiegata più volte su sé stessa.
Noi ci siamo un po’ esercitati a stendere la pasta per farla abbastanza sottile e abbiamo poi usato delle formine per tagliarla a cerchietti, nei quali abbiamo messo un ripieno di carne cercando di creare una sorta di “rosetta”. Anche questa è un’operazione che richiede una certa manualità, e quindi alla quale io sono poco portato, ma è divertente.

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Dopo di che, c’è bisogno di una bella doccia rinfrescante per prepararsi a godere del frutto del nostro lavoro.
Ci facciamo prima un aperitivo con vista in terrazza, che è sempre piacevole e che fa aumentare l’attesa di poter contemplare e… addentare il prodotto dei nostri sforzi.

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Be’, ragazzi, devo dire che vedere i nostri arancini così, belli pronti e “impiattati”… sono veramente soddisfazioni. E sono soddisfazioni anche mangiarli, che ve lo dico a fare?

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Succede però che incredibilmente, complici forse la merendina del pomeriggio e l’aperitivo, anche quello ovviamente accompagnato da stuzzichini vari, non riusciamo a finire tutto. Del resto bisogna anche lasciare un po’ di spazio per il dolce, che stasera è costituito da superlativi cannoli. Forse è anche che è l’ultima sera a Modica, per cui comincia ad affiorare qualche nota malinconica. Ma poco male, faremo un bel pacchetto e ce lo porteremo a Catania, dove ci trasferiremo domani. Non sono forse nati per quello gli arancini, per essere trasportabili?
Proprio perché è l’ultima sera è venuto a salutarci anche Thomas con Lucas, il figlio suo e di Rosellina, che ha 12 anni e oggi è stato al mare col papà.
Tutti insieme (tranne Lucas, ovviamente) diamo fondo al liquore al cioccolato per un ultimo brindisi (tra l’altro abbiamo scoperto improvvisamente che andava agitato prima di versarlo, per cui ora in pratica è rimasta quasi solo la parte più densa) e anche al limoncello, al moscato e allo zibibbo (ma non tutti e tre insieme, eh?).
Poi, qualcuno va a dormire ma con un gruppetto usciamo per goderci ancora qualche scampolo dell’ultima serata modicana: passeggiamo un po’ ma poi il modo migliore per concludere davvero la serata ci sembra quello di salire al Duomo di San Giorgio, sederci sulla scalinata e da lì guardare per l’ultima volta lo spettacolo delle luci di Modica by night… siamo stati veramente benissimo qui, questo è poco ma sicuro.

 

(TO BE CONTINUED…)

 

Grazie a ViaggieMiraggi, in particolare a Giulio (anche per le foto del laboratorio di arancini)

Grazie al B&B I Tetti di Siciliando di Modica: a Rosellina, Graziana e Carmela

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