Viaggio nella Sicilia sudorientale alla scoperta di un ricchissimo patrimonio naturalistico, archeologico, artistico e culturale, senza dimenticare quello gastronomico, perché qui più che mai il cibo è cultura…
Con ViaggieMiraggi
Giovedì 13 agosto 2020 – Catania
Ultima colazione (sigh) ai Tetti di Siciliando, è veramente il momento dei saluti. Qui siamo stati come meglio non si può stare, ma ora purtroppo il viaggio è agli sgoccioli: passeremo quest’ultima giornata a Catania e poi torneremo ognuno a casa propria.
Per noi le quasi due ore di viaggio in autobus scorrono tranquille, anche se abbiamo scoperto poi che è stata una mattina un po’ travagliata per quanto riguarda il traffico sulle strade e autostrade della Sicilia orientale. Arriviamo in tarda mattinata nella città etnea, che rivedo dopo 11 anni, più che mai assolata e calda. Ci facciamo una passeggiata a piedi, passando da un mercato della Pescheria ancora abbastanza vivace, per raggiungere il B&B dove dormiremo questa notte.

Saggezza popolare catanese
Si chiama Bellaqua e si trova nel quartiere popolare di San Cristoforo. Il palazzo che oggi ospita il B&B, costruito nei primi anni del 1800 come quartiere militare per la cavalleria borbonica, è il secondo più grande in città dopo il Monastero dei Benedettini. Dopo essere stato caserma, è stato per anni sede della manifattura tabacchi, dove lavoravano fino a mille persone, in prevalenza donne. Oggi è sede del Museo Regionale Archeologico ed Interdisciplinare della città Metropolitana di Catania, ed offre, in alcune sue parti, delle importanti aree espositive. Il museo, però, si trova tutto nelle sale del piano terra e, a parte un’ala della parte est che è di proprietà della Regione… e questo B&B, il resto è tutto vuoto. Ce lo spiega Santo, il proprietario, mentre ci dà un benvenuto anch’esso caldo, e spiega che lui alcuni anni fa ha comprato una particella che per errore era stata lasciata fuori nel momento del passaggio del palazzo alla Regione Sicilia. È l’unico caso in Italia in cui un privato cittadino sia riuscito ad acquistare una porzione di un Museo pubblico e ci abbia fatto un B&B. Ovviamente il palazzo, poiché giudicato di “interesse architettonico e storico particolarmente importante”, è protetto dalla Soprintendenza ai Beni Culturali ed Architettonici del Comune di Catania.
Le stanze sono tutte ampie e molto belle, con mobili fine ‘800, e c’è anche un bel terrazzo. L’unica piccola controindicazione, dato il periodo, potrebbe essere che non c’è l’aria condizionata. Ma questo è frutto di una scelta ben precisa di sostenibilità energetica e ambientale e allora… chi siamo noi per obiettare? Abbiamo dei ventilatori, cercheremo di arrangiarci con quelli.
Approfittiamo subito del terrazzo, dove Santo ci offre un bicchierino di limoncello “pi’ farisi ‘a vucca” (per farsi la bocca) e, sebbene qualcuno sia perplesso all’idea di farsi un bicchiere di superalcolico come aperitivo, a stomaco vuoto, e per di più con questo caldo, io francamente non disdegno, forte dei miei lunghi trascorsi di viaggi balcanici (per chi non lo sapesse, nei Balcani occidentali bere un superalcolico, che potremmo considerare l’equivalente della nostra grappa, prima del pranzo o della cena è la regola). Intanto, i più esperti tra noi possono apprezzare le peculiarità dell’accento catanese e le differenze con quello di Modica e dintorni, facilitati dal fatto che Santo non smette un attimo di parlare. Come dice lui, la parlata catanese è più secca e veloce, mentre quella della Sicilia sudorientale è spesso più dolce e cantilenante. Ci racconta le bellezze di Catania e di questo che è storicamente un quartiere popolare che in passato è stato anche degradato e che sebbene oggi, data anche la sua vicinanza al centro, sia stato almeno in parte riqualificato, non è ancora “gentrificato”. E ci racconta di quella volta che una coppia di americani, data anche l’esigenza di tenere aperte le finestre la notte vista l’assenza dell’aria condizionata, si era lamentata dei rumori della strada. Lui – racconta – gli aveva fatto capire che “noi catanesi semu stradari”, siamo un popolo che vive in strada: soprattutto d’estate, le persone non hanno l’abitudine di stare chiuse in casa con l’aria condizionata (che del resto da pochi anni è diventata patrimonio abbastanza comune), ma preferiscono stare all’aria aperta; puoi sentire non solo le auto, ma anche i picciriddi che giocano in strada fino alle due di notte. E aveva concluso dicendo: “Siamo a Catania, non siamo a Zurigo!”. Devo dire che in effetti il dubbio non ci aveva sfiorato, e anche che tutto sommato – immaginando la situazione – è uno sfogo condivisibile. Si finisce anche, inevitabilmente, sull’eterno dualismo Catania-Palermo, che riproduce un po’ la dinamica nord-sud nazionale: secondo la vulgata – ovviamente soprattutto quella catanese – i catanesi sono più operosi e hanno “spirito imprenditoriale”, mentre i palermitani tendono all’indolenza. Anche il nostro Santo pare pensarla così, ma a me francamente piacciono poco gli stereotipi.
Dopo l’aperitivo, approfittiamo del terrazzo anche per consumare il nostro pranzo, che non è altro che… l’avanzo degli arancini che abbiamo prodotto ieri, con l’aggiunta delle scacce fatte da Graziana e Carmela. Dato che non tutti hanno fame, è più che sufficiente per tutti.
Dopo di che, si pone il problema di come gestire il pomeriggio: abbiamo prenotato per le 17 la visita al monastero benedettino, che ci sembrava molto interessante e che anch’io non ho visto durante il mio precedente soggiorno catanese, che era durato tre giorni, ma di questi uno era stato dedicato all’Etna e uno a Taormina. Ma prima che si fa? Uscire (quasi) subito, affrontando la calura, o fare una siesta e aspettare due o tre ore nella speranza che la temperatura cali un po’, quindi praticamente uscire solo per la visita al monastero? Su questo ci dividiamo: io, dato che è l’unica mezza giornata che abbiamo a Catania (per di più io domattina devo partire molto presto), preferisco uscire e, con un gruppo di coraggiosi (ma siamo quasi tutti, alla fine), ci avventuriamo nel solleone catanese.
Ci dirigiamo ovviamente verso la piazza del Duomo, che è vicina e che non può che essere il punto di partenza di questo breve giro. Piazza del Duomo è un sito dichiarato dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità. Circondata da splendidi palazzi, rappresenta un esempio del tipico barocco catanese, caratterizzato dal contrasto tra la scura pietra lavica e quella calcarea. Perno dello spazio è la Fontana dell’Elefante, progettata nel 1736 dal Vaccarini, che per realizzare l’emblema della città utilizzò un elefante lavico di epoca romana e un obelisco egizio con geroglifici relativi alla dea Iside.

La Fontana dell’Elefante
Sull’elefante esiste anche una leggenda. Si narra che venne chiamato Liotru in onore di un mago: Eliodoro, detto anche Diodoro, Liodoro, Lidoro, ed anche Teodoro. Eliodoro visse intorno al 725 d.C. quando Catania era una provincia bizantina dell’Impero Romano d’Oriente. Eliodoro aspirava a diventare il vescovo di Catania ma non riusciva ad affermarsi. Un giorno però conobbe uno stregone ebreo, che gli insegnò arti magiche e lo convertì al giudaismo.
Si racconta che una notte Eliodoro si recò presso il sepolcro degli eroi ed iniziò ad evocare il diavolo, grazie a un misterioso scritto che gli era stato consegnato dallo stregone ebreo. Satana infine apparve e gli chiese cosa volesse. Eliodoro gli comunicò le sue ambizioni ed il demonio rispose: “Se rinneghi la fede in Cristo, ti porrò a fianco uno della mia corte, Gaspare, che sarà tuo servo, e ti conferirò poteri magici.” Fu così che Eliodoro accettò ed ottenne poteri soprannaturali. Fu lui stesso a costruirsi magicamente l’elefante, con la lava dell’Etna. A cavallo della magica creatura girava per la città, facendo scherzi e dispetti alla popolazione. L’elefante veniva utilizzato, inoltre, per i suoi lunghi viaggi da Catania a Costantinopoli.
Eliodoro era veramente perfido. Si racconta che andasse al mercato e comprasse tutto quel che gli piaceva, pagando con ori e diamanti, ma quando se ne andava i preziosi si trasformavano in sassi. Una volta convinse il nipote del vescovo a puntare a una corsa di cavalli, facendolo vincere. Ma al momento della premiazione il cavallo vincente parlò rivelando che in realtà era Satana stesso al servizio del mago per lo scherzo, e poi sparì. Eliodoro venne per tale ragione condotto in carcere, ma riuscì a riguadagnare la libertà corrompendo le guardie con l’offerta di tre libbre d’oro. Anche questa volta utilizzò una grossa pietra all’apparenza d’oro, che in seguito riacquistò la sua forma naturale.
Fu Condannato a morte da Costantino ma nel momento in cui stava per eseguirsi la sentenza, egli domandò in grazia una catinella d’acqua: vi tuffò la testa e sparì misteriosamente, dicendo: “Chi mi vuole, mi cerchi in Catania!”.
Nuovamente ricondotto dinanzi al boia per aver dato fuoco al “di dietro” della moglie di Eraclio, un ministro di Costantino, Eliodoro, mentre stava per ricevere il colpo di grazia, si rimpicciolì, entrò per la manica destra del carnefice e ne uscì dall’altra, gridando: “Scampai la prima volta; questa è la seconda. Se mi volete, cercatemi a Catania!”. E disparve ancora, facendosi trasportare dagli spiriti nell’inquieta città.
Fu il vescovo Leone detto il Taumaturgo che, celebrando una messa propiziatoria, riuscì a ridurre il mago Eliodoro in un mucchio di cenere. Il suo elefante rimase vivo ed è ora simbolo della città di Catania.
A parte le leggende, si ritiene che originariamente la statua dell’elefante sia stato oggetto di culto in un tempio di riti orientali della città. Ai primordi del Cristianesimo venne portato fuori le mura, dove rimase per secoli. In seguito, dopo essere stato dimenticato per molto tempo, venne ricondotto in città dai padri Benedettini e posto ad adornare un antico arco. Nel 1508, però, essendo stato completato il vecchio Palazzo di Città, l’arco venne abbattuto e l’elefante fu posto sul prospetto della parte nuova dell’edificio. Dopo il terremoto del 1693, l’elefante fu nuovamente abbandonato finché, nel 1727, l’olandese Filippo d’Orville, trovandosi di passaggio da Catania, sollecitò che esso venisse innalzato insieme all’obelisco egizio nella Piazza del Duomo.
Di fronte alla fontana sorge il Duomo di Sant’Agata, costruito sui resti delle terme Anchilliane dal 1078 al 1093 dal conte normanno Ruggero d’Altavilla. La facciata, realizzata da Giovan Battista Vaccarini tra il 1733 e il 1761, è policroma a due ordini di colonne. Il sontuoso interno contiene la Cappella di Sant’Agata, la patrona della città, dove si conservano le reliquie della santa e un busto in argento. La statua di Sant’Agata, coperta di gioielli, viene venerata il 5 febbraio da una folla in estasi durante una delle feste più importanti della Sicilia. Ma esiste anche una festa estiva che si dovrebbe celebrare (non sappiamo con quali misure anti-Covid) il 17 agosto, quindi tra pochi giorni. Per questo le strade del centro sono già illuminate a festa. Il 17 perché fu il 17 agosto del 1126 che il popolo catanese, svegliato durante la notte da uno scampanio a festa, non perse tempo a cambiarsi d’abito e si riversò in strada così come si trovava, anche a piedi nudi e in camicia da notte, per accogliere prima possibile le reliquie finalmente recuperate da due soldati (forse francesi) che le rapirono per consegnarle al Vescovo Maurizio nel Castello di Aci.

Il Duomo di Sant’Agata
Noi ci spostiamo verso Piazza Bellini, dominata da uno dei più grandi teatri d’Europa, il Teatro Massimo Bellini, intitolato al catanese più famoso nel mondo e considerato padre della musica contemporanea.
Vincenzo Bellini, durante la sua breve vita – morì nel 1835 a soli 34 anni – compose dieci opere, fra cui tre capolavori che lo consacrarono come uno dei maggiori esponenti del melodramma italiano: la Sonnambula, i Puritani e Norma (vi siete mai chiesti perché la pasta alla Norma si chiama così?). A differenza di altri compositori del suo tempo, Bellini rifiutava il ricorso a melodie di facile ascolto. Incurante della prolificità dei suoi colleghi (Rossini componeva in media un’opera ogni due settimane), Bellini elaborò un linguaggio musicale caratterizzato da una nuova sensibilità romantica e al contempo da una compostezza classica della costruzione, che lo resero famoso già in vita. Dopo la sua morte, tuttavia, le opere di Bellini furono trascurate fino agli anni ’30 del XX secolo, quando conobbero un nuovo grande successo. Il suo genio fu tuttavia riconosciuto da Wagner, il quale scrisse che la musica di Bellini era una musica “fortemente sentita e intimamente legata alle parole”.

Il Teatro Massimo Bellini
Devo riconoscere, però, che già in Piazza Bellini il caldo ha un po’ preso il sopravvento su di noi e allora cediamo facilmente alla tentazione di gustare un’ultima granita. Siamo costretti purtroppo a dividerci in sei l’unica brioscia rimasta e questo – lasciatemelo dire – per un bar che si trova niente meno che in Piazza Bellini a Catania è molto grave.
Comunque, dopo la pausa possiamo ripartire e continuare il nostro giro, passando dalla via San Michele dove, da qualche anno, è nato un progetto interessante. Questa piccola stradina sta facendo parlare di sé, di fatto allargando il circuito turistico del centro storico di Catania. Mostre, festival, performance, concerti, reading di poesia e tanti altri eventi, in meno di duecento metri. L’idea è di un gruppo di cittadini e professionisti, i quali, in questa stradina parallela a Via Etnea, celebre salotto della città, hanno deciso di investire e riportare all’originaria dignità il quartiere, che negli anni passati, paradossalmente, era stato eclissato dal flusso pedonale. L’appropriazione degli spazi pubblici è divenuta funzionale con l’installazione di piccoli interventi di arredamento urbano, tanto semplici quanto importanti, come la sistemazione di fioriere e di panchine mobili. Ciò è stato un piccolo atto di bellezza, che ha reso grande la via. L’associazione “San Michele Art Power”, costituita nel dicembre 2017, nasce sia per avere un’identità in grado di dialogare burocraticamente con le istituzioni, sia per ottenerne quando si può la collaborazione, come la chiusura straordinaria della strada dal venerdì alla domenica (dalle 18 alle 2), il patrocinio delle iniziative, l’adesione agli eventi e altro. L’obiettivo sarebbe anche quello di pedonalizzare un’area più vasta del centro storico di Catania. I primi a dare avvio al cambiamento sono stati i ragazzi di tante botteghe della via: dal food all’artigianato, passando per l’arte contemporanea e i vinili.
Buttiamo un occhio ai resti dell’anfiteatro romano, ora non visitabili, in Piazza Stesicoro: guardandolo oggi non si direbbe, anche perché se ne vede solo una piccola parte, ma nel suo periodo di massimo splendore intorno al II secolo a.C. poteva accogliere 16.000 spettatori ed era secondo solo al Colosseo. Dietro si vede la chiesa di Sant’Agata al Carcere, al cui interno si trova un ambiente di epoca romana indicato come la cella nella quale fu rinchiusa la santa prima del martirio.

I resti dell’anfiteatro romano
Si arriva poi a Villa Bellini, con i suoi deliziosi giardini vero polmone verde del centro di Catania, dove ci possiamo rilassare un altro po’ in attesa della visita al monastero.
Il Monastero di San Nicolò all’Arena è un gioiello del tardo barocco siciliano ed un complesso benedettino tra i più grandi d’Europa. L’edificio monastico, che nasce nel ‘500 e si sviluppa fino ai giorni nostri, è un esempio di integrazione architettonica tra le epoche: contraddistinto da molteplici trasformazioni, oggi è patrimonio mondiale dell’Unesco. Sede del DiSUM (dipartimento di Scienze Umanistiche) dell’Università degli Studi di Catania, custodisce al suo interno una domus romana, i chiostri e uno splendido giardino pensile.
La nostra visita inizia dal chiostro di Levante, che è una parte aggiunta nel ‘700. Il primo impianto nasceva a forma quadrata con un chiostro interno definito dei “Marmi” (ridefinito in seguito Chiostro di Ponente), per via della presenza del pregiato marmo di Carrara nell’elegante colonnato seicentesco, nella fontana quadrilobata posta al centro e nei decori rinascimentali che ne addolcivano maggiormente l’aspetto.

Il Chiostro di Ponente
Il monastero è sontuoso, già da questo chiostro, e ciò si deve al fatto che i monaci benedettini erano in genere figli cadetti di famiglie nobili che, secondo la legge del maggiorascato, erano costretti a scegliere tra la vita militare e quella monastica. La scelta più semplice era senz’altro la vita monastica, che era in fin dei conti una vita agiata. Non avendo una vera e propria vocazione (almeno non tutti) utilizzavano il chiostro, più che per la preghiera o la meditazione, come luogo dedicato allo studio. I monaci benedettini erano molto colti, erano amanuensi, alcuni scienziati, o farmacisti. Coltivavano un orto botanico di quattro ettari e mezzo, dove si trovavano erbe officinali rarissime. Si può vedere anche una struttura inserita successivamente, di stile arabeggiante, con mattonelle colorate, colonne tortili e archi acuti. In realtà questa non aveva una funzione precisa, se non quella estetica. Si chiama Caffeaos perché i monaci stavano lì a bere cioccolata (anche questo lo sappiamo bene, quanto fosse all’epoca la bevanda dei nobili) e caffè. Questo avveniva soprattutto nella seconda metà del ‘700, quando cominciarono ad arrivare in Sicilia i viaggiatori del Gran Tour. Vi fu ospitato, tra gli altri, anche Goethe. A quell’epoca il monastero era il centro culturale per eccellenza della città di Catania.

Particolare del Caffeaos
L’Etna, naturalmente, ha sempre influenzato profondamente la vita della città, e il XVII secolo catanese è legato alla terribile colata lavica del 1669 e al catastrofico terremoto del 1693. L’8 marzo del 1669, dopo ripetute scosse sismiche e assordanti boati provenienti dalla Montagna (l’Etna da sempre per i catanesi è femmina ed è semplicemente “’a muntagna”), si aprono due profonde fenditure da cui esce lava. Si alzano colonne di fumo, in seguito alle esplosioni vengono scagliati materiali piroclastici: l’Etna è in eruzione, il vulcano dimostra tutta la sua potenza. La colata raggiunge la cinta muraria della città intorno alla fine di aprile, giungendo fino alle mura del monastero. La città era stata difesa strenuamente utilizzando muri per deviare il fiume di fuoco che l’assediava. Il monastero si salva, ma non la chiesa ad esso annessa: viene sconquassata dall’arrivo della colata. Cambia fortemente l’aspetto dei terreni limitrofi al Monastero dei Benedettini. La sciara lavica è alta 13 metri circa e ha divorato le coltivazioni lasciando dietro di sé un paesaggio lunare.
Nel 1687, ben 18 anni dopo l’eruzione, incomincia la ricostruzione della chiesa annessa, plausibilmente su disegno dell’architetto romano Contini. Il Monastero del Cinquecento era costituito da un piano interrato, destinato a cantina, deposito delle derrate alimentari e cucina, e due piani destinati ad accogliere le celle dei monaci, il capitolo, il refettorio, la biblioteca e il parlatorio oltre che il chiostro dei Marmi.
Nella notte tra 10 e 11 gennaio del 1693 Catania trema insieme a tutto il Val di Noto che, come ormai sappiamo, viene raso al suolo. All’indomani del terremoto la città è distrutta e gran parte dei catanesi è sepolta sotto le macerie. Del monastero cinquecentesco resta integro il piano interrato e parte del primo piano. Del chiostro restano erette 14 colonne, le altre cadono giù e si spezzano.
A partire dal 1702, sono trascorsi ben 9 anni dall’evento catastrofico, inizia la ricostruzione; il Monastero viene ripopolato da monaci provenienti da altri monasteri e ingrandito rispetto alla pianta primigenia: al Chiostro dei Marmi o di Ponente ricostituito e rinnovato da elementi tardobarocchi, si aggiunge il Chiostro di Levante e la zona nord con gli spazi destinati alla vita diurna e collettiva dei monaci. Si sfrutta il banco lavico, che era impensabile rimuovere con i mezzi dell’epoca, per realizzare i due giardini pensili, l’Orto Botanico – la villa delle meraviglie – e il giardino dei Novizi. La lava diventa anche parte delle fondamenta dell’ampliamento: sopra quei 13 metri di lava nasce la parte nuova del monastero, che quindi nella parte antica ha tre livelli (seminterrato, primo piano e secondo piano) e solo uno nella parte nuova: il secondo piano della parte antica corrisponde al piano terra nella parte più recente, dove sotto c’è solo lava. Ingrandito, decorato, rimaneggiato il Monastero diviene uno dei conventi più grandi d’Europa, secondo, tra quelli di ordine benedettino, solo a quello di Mafra in Portogallo.
La fontana del chiostro di Ponente non è sempre stata lì: nel 1866, con le cosiddette leggi eversive, il neonato Stato italiano espropria di tutti i beni la Chiesa. I monaci vengono così cacciati dal monastero, che diventa sede statale. Vi vengono trasferite scuole, una caserma militare, un laboratorio di geodinamica, un osservatorio di astrofisica e meteorologia. All’interno del monastero si possono ancora vedere infatti un pendolo e altri antichi strumenti.
Tutto questo convive all’interno del monastero per più di un secolo, fino al 1977. In un secolo di usi civili, il monastero era stato gravemente danneggiato. Ma nel 1977 il Comune cede all’Università la struttura e si iniziano i lavori di recupero, che vengono affidati all’architetto genovese Giancarlo De Carlo, il quale riesce a riportare all’assetto originale tutto il monastero e fa rimontare, con i pezzi ritrovati per caso all’interno delle fognature del monastero, anche la fontana, che era stata tolta perché il chiostro era stato utilizzato come palestra a cielo aperto della scuola, che non disponeva di altri spazi idonei.
La visita termina con i monumentali scaloni del monastero, impreziositi da stucchi neoclassici e bassorilievi, tra cui si nota quello che raffigura il martirio di Sant’Agata, dove alla santa vengono strappate le mammelle.
La nostra guida, giovane e brava, ci consiglia di visitare anche l’annessa chiesa di San Nicolò all’Arena, ed è quello che facciamo. La chiesa venne costruita su progetto dell’architetto romano Giovanni Battista Contini a partire dal 1687 e conserva – oltre a pregevoli pale d’altare – il grande organo barocco di Donato Del Piano e la lunga meridiana (40 metri) opera di Sartorius e Peters. L’immensa fabbrica, passata da Francesco Battaglia al genero Stefano Ittar, rimase incompiuta in facciata, sebbene sia evidente l’intento di portare a Catania il linguaggio architettonico ecclesiale romano. All’interno è presente il sacrario dei caduti della I e II Guerra Mondiale. La chiesa a croce latina è considerata una tra le più grandi della Sicilia ed è addirittura più grande della Cattedrale di Sant’Agata; all’esterno si presenta incompiuta con 4 coppie di colonne mozze e il prospetto incompleto. Nonostante i lavori fossero iniziati alla fine del XVII secolo, il progetto non era ancora stato portato a conclusione nel 1866 quando la struttura venne confiscata a seguito dell’emanazione delle leggi dell’Eversione dell’asse ecclesiastico. Sconsacrata durante l’ultima guerra mondiale e danneggiata dai bombardamenti, successivamente riconsacrata e dal 1989 ritornata ai benedettini, la chiesa è stata oggetto di numerose campagne di restauro e consolidamento, compresi i lavori di restauro della cupola iniziati nel 1999 e conclusi dopo un lungo periodo di stasi solo nel 2012.

La Chiesa di San Nicolò all’Arena

La cappella di Sant’Agata

La meridiana
Notevole è anche la vista che si gode salendo i 141 gradini della stretta scala a chiocciola che porta ai camminamenti di gronda. L’accesso sarebbe ormai chiuso, data l’ora (sta per chiudere anche la chiesa), ma riusciamo in qualche modo a impietosire la custode che, dietro promessa di una salita e discesa velocissima, ci fa salire e quindi ci lanciamo su per la scala. Si possono osservare dal punto più alto della città il centro storico, il mare e l’Etna, anche se stasera purtroppo ‘a muntagna risulta un po’ offuscata. Abbiamo saputo poi che, il giorno della nostra partenza e nei giorni successivi, era piuttosto inquieta e fumante. Ridiscendiamo rapidissimi, facendo segnare – credo – il nuovo record sul tempo di salita e discesa, e ringraziamo la gentile custode.
https://www.cataniatoday.it/cronaca/etna-emissione-cenere-ingv-catania-22-agosto-2020.html

La fontana dell’Amenano (l’antico fiume di Catania, oggi interrato)
Per la nostra serata catanese, Giulio ci ha organizzato una cena al Nievski, un pub-trattoria che è situato nella scalinata Alessi, a poche centinaia di metri da piazza Duomo e piazza Università. Fondato nel 1986, è da allora un punto di riferimento importante, tanto che questa ormai per tutti è la scalinata Nievski: i tavolini e la folla sono un richiamo irresistibile per chi passa da via dei Crociferi. D’inverno piace per la sua saletta fumatori e l’ambiente casalingo, tra la stufa, il quadro di Marx, la fotografia di Toro Seduto e i poster dei film mediorientali. D’estate non è raro che la nottata svolti quando qualcuno seduto sui gradini tira fuori la chitarra. A metà tra il centro sociale, il pub e il ristorante, il Nievski è un’istituzione delle serate catanesi soprattutto – diciamolo – per la Catania di sinistra. Non sono rari i concerti, i reading e le presentazioni di libri, organizzati in modo del tutto spontaneo. A noi lo ha raccontato Enzo, che è lo zio di Saro (Rosario), uno dei fondatori, ed è anche pittore con lo pseudonimo Plat (da Platania, il suo cognome).
Cucina rigorosamente siciliana ma con citazioni africane, il menù varia di continuo, con prodotti bio e di stagione. Ma è il pesce il piatto forte, e quindi anche noi ci orientiamo su quello: per me spiedini di pesce e un assaggio di sarde a beccafico in versione catanese, che si differenzia da quella palermitana perché il ripieno è di solo pan grattato e formaggio, senza uvetta e pinoli, e sono fritte anziché al forno. Il tutto annaffiato con una buona birra rigorosamente “local”.
Dopo di che, la serata continua nella zona intorno al Castello Ursino, costruito nel XIII secolo da Federico II. Siamo nello spazio che dal 2013 l’associazione culturale Gammazita ha “adottato”, trasformando una parte di Piazza Federico di Svevia in uno spazio libero, restituito alla città, in cui arte, cultura, socialità e condivisione sono di casa.
Gammazita è un’associazione culturale e di promozione sociale, impegnata ogni giorno nella riqualificazione urbana e nella diffusione di processi di aggregazione all’interno del quartiere in cui opera, San Cristoforo, che come sappiamo viene da una storia di degrado e microcriminalità diffusa. Le attività si concentrano sulla condivisione culturale ed artistica, sulla valorizzazione dei beni pubblici, sull’organizzazione dal basso, sull’inclusione sociale e sulla cittadinanza attiva. Con la volontà di riappropriarsi degli spazi urbani attraverso azioni dirette di valorizzazione del centro storico, l’Associazione se ne prende cura abbellendo strade, piazze e scorci con piante, orti urbani, interventi artistici, murales d’autore, arredi realizzati con materiale di riciclo. Valorizza i beni culturali e le leggende della tradizione orale cittadina che fanno parte del quartiere in cui opera come il Pozzo di Gammazita, i cortili e vicoli circostanti, fino al Castello Ursino, e collabora con gli abitanti del quartiere che vengono incoraggiati a prendersi cura dell’ambiente in cui vivono offrendo a ragazzi e bambini un’alternativa alla vita di strada. Ogni settimana promuove eventi legati alla musica, alle arti, all’editoria, intere giornate da trascorrere all’aperto e, per i più piccoli, Ursino Kids, i laboratori manuali creativi. Ogni mese propone laboratori e workshop con artisti di varie discipline, corsi di musica e teatro rivolti sia ad adulti che a bambini. Ogni anno organizza numerose iniziative di piazza, sentite e partecipate da tutta la città, volte a stimolare l’aggregazione e l’inclusione sociale, come: il Carnevale Sociale e le parate cittadine, rassegne e spettacoli di circo contemporaneo, rassegne teatrali, la celebrazione del 25 Aprile con la “Festa Libera e Resistente”, la giornata contro la violenza sulle bonne, incontri e serate benefit a sostegno di organizzazioni no-profit e cause sociali e Ursino Buskers, il Festival Internazionale di Arti di Strada di Catania.
Anche stasera in effetti, pur in una Catania che abbiamo visto abbastanza svuotata dalle ferie estive e dall’assenza degli studenti fuori sede che non sono ancora tornati dopo il lockdown (Catania è città universitaria), c’è parecchio movimento.
Anche il pozzo di Gammazita, una Fonte medievale, è candidato tra i Luoghi del Cuore 2020 per la campagna FAI – Fondo Ambiente Italiano. Se volete votarlo cliccate qui.
Dopo aver tirato un po’ tardi in Piazza Federico di Svevia, la nostra prima e unica (tranne che per Federica e Vittorio, che si fermano un giorno in più) serata catanese inizia davvero a volgere al termine. Torniamo al B&B e ci facciamo un ultimo brindisi in terrazza, con i saluti, gli abbracci (per chi se la sente) e la speranza di rivedersi presto per qualche altro viaggio.
Ed è giunto il momento di salutare e ringraziare anche voi, che avete avuto la pazienza di seguirmi fin qui. Spero come sempre di non avervi annoiato. Dato che siamo a Catania, vorrei chiudere con le parole e la musica della più famosa “cantantessa” catanese, Carmen Consoli. È una canzone di qualche anno fa, in dialetto (ma niente paura, ci sono i sottotitoli), che secondo me ha dentro molta, molta sicilitudine (ammesso di aver capito davvero che cos’è, in questi giorni) e che, se la ascoltate fino alla fine, dice che c’è stato un tempo di bellezza, quando si capiva che la diversità è ricchezza, e che quel tempo può tornare se si trovano semi buoni da piantare, in questa terra di fuoco e mare. È quello che penso anch’io. Certo, chi oggi governa la Sicilia la pensa evidentemente in un altro modo e non è in grado di piantare buoni semi, ma poco importa: passerà anche lui come sono passati tutti gli altri. Nni videmu!
Grazie a ViaggieMiraggi, in particolare a Giulio
Grazie al B&B I Tetti di Siciliando di Modica: a Rosellina, Graziana e Carmela
E grazie di cuore anche a tutte le compagne e tutti i compagni di viaggio!