Viaggio nella Sicilia sudorientale alla scoperta di un ricchissimo patrimonio naturalistico, archeologico, artistico e culturale, senza dimenticare quello gastronomico, perché qui più che mai il cibo è cultura…
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Sabato 9 agosto 2020 – Noto e la riserva naturale di Vendicari
Oggi abbiamo in programma la visita a Noto, un’altra perla del barocco, e alla riserva naturale di Vendicari, che ci raccontano sia bellissima. Per farlo abbiamo noleggiato due auto e, con Rosellina e Giulio, siamo partiti di buon’ora.
Di Noto si sa molto, anche se prima della partenza ho dovuto constatare con raccapriccio che a volte, quando dicevo che avevo in programma un viaggio che aveva come meta anche Noto, la prima reazione era “Ah sì, dove si sono sposati Fedez e la Ferragni!”. Ecco, no, a Noto sono successe altre cose anche prima. Paradossalmente, forse è diventata veramente famosa quando è crollata la cupola della cattedrale nel 1996.
Ma molto prima, è stato un altro l’evento che ha cambiato per sempre la storia della città, e ne ha fatto quello che è oggi: il disastroso terremoto del 1693. Sappiamo che questa zona è fortemente sismica e che ha dovuto sopportare molti terremoti nel corso dei secoli; secondo la leggenda popolare di Colapesce, che abbiamo potuto ascoltare la prima sera, è proprio il mitico eroe che, nelle profondità del mare, ancora sorregge una delle colonne su cui poggia la Sicilia per non farla sprofondare, ma purtroppo ogni tanto si stanca e deve cambiare spalla… ed ecco che la terra si muove e arriva una scossa. Ma quella fu davvero molto grande, al punto da radere al suolo Noto e molte altre città. Con una magnitudo stimata pari a 7,7 è considerato il terremoto più forte mai registrato nell’intero territorio italiano e il ventitreesimo terremoto più disastroso della storia dell’umanità, almeno tra quelli storicamente accertati.
L’evento sismico provocò la distruzione totale di oltre 45 centri abitati, interessando con effetti pari o superiori al XI grado MCS (scala Mercalli) una superficie di circa 5600 km², causando un numero complessivo di circa 60.000 vittime. Fu, fra l’altro, seguito da un maremoto che colpì le coste ioniche della Sicilia, lo Stretto di Messina e probabilmente, secondo alcune simulazioni, interessò anche le Isole Eolie.
Era il V secolo a.C. quando Ducezio, il leggendario re dei Siculi, fondava sull’altipiano dell’Alveria l’antica Neas. Centro d’arte e cultura, divenne Neaton sotto la civiltà greca, Netum in epoca romana e bizantina, poi, dopo il dominio arabo, si susseguirono normanni, svevi, aragonesi e spagnoli.
Noto è una città più piccola (oggi 24.000 abitanti circa) rispetto a Modica, ma storicamente è sempre stata ricca e opulenta. All’apice del suo splendore decoravano la città undici conventi e otto monasteri, un ospedale detto di Santa Maria della Consolazione, trentaquattro chiese oltre quelle dei pii ricoveri di frati e monache. Magnifici erano i palazzi delle famiglie nobili e nella Piazza Maggiore, che era il centro della città, sorgevano la casa senatoria e la Chiesa Madre.
Ma poi arrivò il funesto anno 1693. Questo è ciò che narra un netino (così si chiamano gli abitanti di Noto) che scampò al tremendo eccidio:
“… toccate le ore 21 dell’11 gennaro dell’anno 1693, compiendo le ore 40, verificassi l’avviso, quale si stimò dato dal glorioso S. Corrado che volle preservare il suo diletto popolo. Poiché allora fece un terremoto così orribile e spaventoso, che il suolo a guisa di un mare ondeggiava, i monti traballanti si diroccavano e la città tutta in un momento, miseramente precipitò…”.
Rasa al suolo dal terremoto, Noto fu ricostruita dalle famiglie della nobiltà locale in un grandioso stile barocco, ragion per cui oggi è unica per la coerenza stilistica dei suoi palazzi – un barocco esuberante ma temperato dalla razionalità dei moduli architettonici e dal senso di simmetria.
Una settimana dopo il terremoto, l’architetto Giuseppe Lanza, duca di Camastra, ricevette l’incarico più importante della sua vita: ricostruire da zero un’intera città. Animato da grande determinazione, Lanza si mise al lavoro senza curarsi delle esigenze della popolazione rimasta senza tetto, che restò infatti scandalizzata nell’apprendere che la nuova città sarebbe sorta a 15 km di distanza da quella distrutta, più giù verso il mare. Lanza perseguì imperterrito il suo obiettivo, realizzando un modello esemplare di pianificazione urbanistica, con una rete di strade ortogonali, giochi prospettici e piazze grandiose. Ebbe anche la lungimiranza di scegliersi ottimi collaboratori, su tutti Rosario Gagliardi. Le calde tonalità dell’oro e del miele della pietra locale, che è di tipo calcareo (ce lo conferma Vittorio, che è geologo ed è ovviamente diventato subito il nostro geologo di riferimento), addolciscono le linee opulente delle chiese e dei palazzi, creando un insieme altamente suggestivo. È una pietra calcarea bianca, morbida e facilmente lavorabile, che col tempo diventa giallo-oro: per questo Noto ha assunto anche l’appellativo di “Città d’oro”.
I quartieri popolari costituiscono quello che viene denominato “barocco minore”. Case basse, di solito una o due stanze, le cui facciate venivano decorate con pezzi provenienti dall’antica Noto. All’interno veniva ricavato anche lo spazio per l’animale da tiro, che era utilizzato sia per lavorare la terra che come mezzo di trasporto. La casa si presentava così: il letto matrimoniale posto subito alla vista di chi entrava, sopra il quale, legata al soffitto come un’altalena, c’era la “naca a bientu”, una culla che serviva a dondolare i neonati stando a letto e tirando una corda. La stanza in genere veniva soppalcata e lo spazio ricavato era utilizzato sia per stendere la biancheria intima che, con un po’ di pagliericcio, come letto per i figli.
Noi entriamo in città dalla maestosa Porta Reale, costruita tra il 1838 e il 1841 per celebrare la venuta di Ferdinando II di Borbone e per questo conosciuta anche col nome di Porta Ferdinandea. Mentre risulta univoca l’interpretazione della torre merlata, chiaro simbolo della forza espressa da Noto nel corso dei secoli, e del levriero, forse un cirneco dell’Etna, che simboleggia il senso di fedeltà e sottomissione del popolo al re, meno palese appare il significato dell’uccello centrale spalleggiato dalle altre sculture. Alcuni lo riconducono alla rappresentazione di una cicogna, simbolo di fertilità, mentre i più propendono per pensare che si tratti di un pellicano nell’atto di curvare il becco verso la tasca del petto, ricolma di pesci necessari a sfamare i propri piccoli. In passato, erroneamente, si pensava addirittura che i pellicani adulti si lacerassero il torace per nutrire i piccoli col proprio sangue e da ciò deriva l’iconografia cristiana per cui il pellicano è emblema di carità, sacrificio e abnegazione.
Percorrendo il Corso, intitolato a Vittorio Emanuele II, si raggiunge la chiesa di San Francesco d’Assisi all’Immacolata, costruita fra il 1704 e il 1745 su progetto degli architetti Vincenzo Sinatra e Rosario Gagliardi. Insieme all’annesso ex convento dei Frati Minori conventuali è fra i più importanti edifici religiosi di Noto.
L’elegante facciata si erge su un’imponente scalinata a tre rampe. Il portale d’ingresso è fiancheggiato da artistiche colonne barocche e arricchito con tre nicchie, due ai lati e una più piccola sopra il portale stesso. Nel piano rialzato antistante il convento notiamo una statua marmorea dell’Immacolata del 1787, in sostituzione di quella calcarea del 1704.

Chiesa di San Francesco
L’interno è ad unica navata, ricco di opere pittoriche, nonché di monumenti funebri dedicati ad esponenti di alcune nobile famiglie netine. Nell’altare maggiore è posta la statua lignea della Vergine Immacolata, opera di Antonio Monachello (1564). La Chiesa custodisce al suo interno importanti e pregevoli opere. Interessanti sono le due cappelle dedicate a San Francesco d’Assisi e a Sant’Antonio di Padova, realizzate dallo stuccatore Giuseppe Gianforma su disegno dell’architetto Vincenzo Sinatra, in cui sono collocate due tele molto pregiate: l’Estasi di S. Francesco e la Predica di S. Antonio ai pesci.

Chiesa di San Francesco – Interno
Si incontra poi Santa Chiara (denominata ufficialmente chiesa di Santa Maria Assunta), adiacente all’ex monastero benedettino del Santissimo Crocifisso. La chiesa inizialmente fu dedicata alla Madonna Assunta ma, intorno alla seconda metà del ‘700, le benedettine lasciarono l’edificio alle consorelle dell’Ordine delle clarisse per stabilirsi nella struttura costruita dirimpetto e la chiesa mutò nome in Santa Chiara.
Progettata da Rosario Gagliardi negli anni intorno al 1730, venne completata nel 1758 e fu annessa al monastero (oggi adibito a sede museale). La pianta centrale è di forma ellittica, sul modello delle chiese ellittiche romane edificate tra Cinquecento e Seicento.
L’esterno è caratterizzato dalla presenza di una torre campanaria, ornata negli angoli da due capitelli. Originariamente l’unico portale della chiesa era quello situato lungo Corso Vittorio Emanuele; verso la fine del XVIII secolo ne fu aggiunto un altro dal lato di via Pier Capponi, a causa di alcuni lavori lungo il Corso. Dopo il completamento dei lavori fu però riscontrato un notevole abbassamento del piano stradale, che rese pertanto inagibile il portale originario. Oggi l’unico accesso alla chiesa è quello da via Pier Capponi.

Chiesa di Santa Chiara
Lo stile architettonico barocco si riconosce maggiormente all’interno, grazie alle numerose decorazioni con stucchi e putti. Sulle dodici colonne interne sono presenti le statue degli apostoli eseguite dal decoratore e stuccatore Basile. Lungo l’arco ovale del cornicione si possono notare quattro tele raffiguranti le virtù cardinali, presso l’altare maggiore una pregevole tela raffigurante l’Assunzione della Madonna (di autore ignoto del XVIII secolo) e sopra questa un capolavoro in stucco che rappresenta il Padre Eterno benedicente tra angeli e nubi. Nella prima cappella di sinistra spicca una delle sculture più importanti di Noto, la Madonna col bambino opera marmorea attribuita ad Antonello Gagini o alla sua scuola (secolo XVI).

Chiesa di Santa Chiara – Interno
È possibile salire e vedere la cantoria, che era lo spazio dedicato alle suore di clausura perché cantassero con le loro voci soavi. Dalle finestrelle, un tempo ricoperte da grate panciute in ferro dette gelosie, le monache, che provenivano dalle migliori famiglie, potevano apprezzare la fastosità barocca della loro chiesa, tutta bianca, emblema di purezza e castità, e oro, arricchita dalle decorazioni a stucco. Coltivato scrupolosamente in tutti i monasteri, il canto elevava l’anima ed era perciò considerato, più che un’arte, una vera forma di preghiera. Certo, la necessità di lasciar entrare nella clausura i maestri di musica e canto sollevava qualche perplessità ed era fonte di notevole imbarazzo per le autorità religiose, che si videro costrette a porre qualche limitazione al riguardo. L’importanza di saper cantare in coro non era solo un fatto di prestigio: la religiosità del tempo attribuiva infatti una particolare valenza alla modulazione della voce che doveva mantenersi sempre su tonalità molto basse perché “nel canto in tono alto ci sono due inconvenienti: l’uno, non avendo melodia, è brutto da sentire, e l’altro fa perdere la semplicità e lo spirito” del vivere monastico; per questo motivo era considerato conveniente “che le voci si levino più con mortificazione che con l’intenzione di sembrare belle”. Le clarisse cantavano senza l’accompagnamento dell’organo, a cappella, grazie alla particolare forma della stanza che faceva da cassa di risonanza alle loro voci.
I lavori manuali costituivano l’attività principale dell’epoca ed erano quindi necessarie braccia da lavoro. Si comprende, dunque, come nelle famiglie la nascita di un figlio maschio era vista come una benedizione e la prole spesso come l’unica vera ricchezza. Per le figlie si prospettavano due vie: il matrimonio o la vita monacale. Naturalmente non tutte potevano sposarsi perché era usanza portare una dote al marito, di solito consistente in un appezzamento di terreno o una casa. Per questo molte erano costrette a scegliere la vita monastica, per scampare a un’esistenza misera e avere almeno la certezza di un riparo.
Monaca o moglie: per il destino delle fanciulle rispettabili non c’erano altre alternative. I conventi erano luoghi deputati all’educazione ma, soprattutto, indispensabili a quelle strategie che le casate mettevano in atto per motivi economici legati alla pratica del maggiorascato. L’eredità doveva andare indivisa al primogenito e le doti matrimoniali dissanguavano il patrimonio familiare: per questo monacare le figlie cadette costituiva la soluzione migliore per dare respiro alle finanze della casata sistemando, al tempo stesso, le giovani in modo confacente al loro status. Le zitelle non godevano di una posizione sociale riconosciuta: finché erano giovani erano un peso e quasi un rimprovero per tutto il parentado; il convento, invece, forniva loro uno status rispettabile e un rifugio dai pericoli, dal disonore e dalla povertà.
Tra le famiglie più in vista della città spiccavano soprattutto i Landolina, famiglia di antiche origini nobiliari, e i Nicolaci, che erano proprietari di due terzi della Sicilia sudorientale e delle tonnare di Vendicari, Marzamemi e Portopalo. La vita per loro scorreva tra battute di caccia, riunioni d’affari, politica e feste.
Fin dall’educandato le fanciulle imparavano a non rimanere in ozio e il chiostro era l’ambiente ideale per coltivare quelle virtù “tipicamente femminili” come umiltà e pazienza, il cui sviluppo era legato all’apprendimento e allo svolgimento di lavori artigianali quali il cucito e il ricamo. Per le educande che entravano a 25 anni scattava subito automaticamente l’anno di noviziato, al termine del quale si sarebbero monacate o sarebbero uscite; questo, però, non era il caso più frequente. Più spesso capitava che bambine al di sotto dei 7 anni entrassero in convento. Le famiglie speravano così che la lunga abitudine alla vita monastica e la vicinanza di parenti già monache avrebbero fatto nascere in modo naturale la vocazione. Le norme conciliari stabilivano che, affinché lo stato monacale fosse una scelta libera e consapevole, i voti non potessero essere pronunciati prima del sedicesimo anno di età e senza aver compiuto un anno di noviziato.
La giornata in convento cominciava di buon’ora con la recita dell’Ufficio, la messa e l’orazione. Poi, dopo aver atteso alle loro faccende, le monache andavano nel refettorio e mangiavano in silenzio ascoltando la lettura dei libri spirituali fatta da una corista. Le colpe commesse erano punite col digiuno a pane e acqua e con l’incarcerazione.
Dalle terrazze di Santa Chiara si gode una stupenda vista sul Corso e sulla Cattedrale, che poi ci apprestiamo a visitare, non prima di essere passati dalla Sala degli Specchi di Palazzo Ducezio, che si trova di fronte ed è ora il palazzo municipale. Fu progettato dal netino Vincenzo Sinatra nel 1746, ispirandosi ad alcuni palazzi francesi del XVII secolo, ma venne portato a compimento solo nel 1830, e il secondo piano venne costruito nella prima metà del XX secolo dall’architetto Francesco La Grassa. La facciata, convessa, è caratterizzata da venti arcate sorrette da colonne con capitelli ionici nella sezione inferiore, e da tredici finestroni rettangolari nella sezione superiore.
All’interno è degna di nota la Sala degli Specchi, salone a pianta ovale che fungeva in passato da teatro, arricchito di stucchi ed ori di stile Luigi XV e di sontuose specchiere alla fine del XIX secolo.
Nella volta della sala campeggia “La Fondazione di Neas”, affresco neoclassico del pittore Antonio Mazza, realizzato nel 1826 e che raffigura un’allegoria di Ducezio, re dei siculi, al quale un ufficiale del genio mostra il sito di Neas sul monte Alveria. Sito sul quale, in età pre-ellenica, sarà riedificata la città fortificata di Noto Antica, per difendersi dall’attacco dei Greci.

Palazzo Ducezio

Sala degli Specchi

Sala degli Specchi
La cattedrale di San Nicolò è il luogo di culto cattolico più importante della città di Noto, nonché sede vescovile dell’omonima diocesi. È ubicata sulla sommità di un’ampia scalinata, sul lato nord di piazza Municipio, ed è dedicata a san Nicolò, vescovo di Mira.
La costruzione della cattedrale iniziò nel 1694, e fu completata nel 1703, anno in cui fu aperta al culto con la solenne dedicazione. Nel corso dei secoli, tuttavia, sia la facciata che l’interno hanno subito numerosi rimaneggiamenti, che le hanno conferito l’aspetto attuale solamente alla fine del XIX secolo, dopo il crollo del 1996, con la costruzione di una nuova cupola, opera del netino Cassone.
L’interno, a tre navate, custodisce numerose opere d’arte, alcune delle quali provenienti da Noto Antica, fra le quali l’urna argentea contenente le spoglie mortali di San Corrado Confalonieri. Il 21 gennaio 2012 papa Benedetto XVI ha elevato la cattedrale a basilica minore.
La facciata risponde alla tipologia con due torri laterali. Essa è frutto di un corposo rimaneggiamento attuato da Vincenzo Sinatra nella seconda metà del ‘700 (su un campanile è riportata la data 1768) nella preesistente facciata incompiuta di Rosario Gagliardi. La successiva aggiunta di nuovi elementi rende evidenti le incongruenze tra i diversi elementi e l’eclettismo della composizione. Il tempio fu completato verosimilmente alla fine del XVIII secolo, anche se nel secolo successivo fu ricostruita la cupola, in stile neoclassico con tracce neobarocche, per sostituire la precedente (che già non era quella originaria), crollata a causa dei terremoti. Nel secolo scorso, intorno agli anni cinquanta, furono apportati vari rifacimenti e modifiche nell’apparato decorativo, non sempre ben riusciti, come il trompe-l’oeil delle strutture verticali e la decorazione a tempera delle volte da parte dei pittori Arduino e Baldinelli, le radicali modifiche dell’altare maggiore e dell’antico organo e inoltre la sostituzione dell’originaria copertura a falde (con struttura in legno) della navata centrale con un pesante solaio latero-cementizio che probabilmente fu una delle cause principali del crollo del 1996.
In seguito al terremoto del 13 dicembre 1990 la chiesa subì alcuni danni strutturali e già allora si pensò di chiuderla al culto e di sottoporla a restauri, ma non vennero presi provvedimenti. La sera del 13 marzo del 1996, a causa di un grave difetto costruttivo dei pilastri della navata centrale (riempiti “a sacco” con sassi di fiume anziché con conci in pietra squadrati), il primo dei piloni di destra che fa da sostegno alla cupola per “schiacciamento” rovinò al suolo, trascinando con sé nel crollo la cupola stessa e per effetto domino l’intera navata destra, la navata centrale e il transetto destro lasciando miracolosamente in piedi tutto il resto della chiesa. Fortunatamente non vi furono vittime, poiché a quell’ora la chiesa non era aperta al pubblico.
Nel gennaio del 2000, dopo una prima fase di sgombero delle macerie, hanno avuto inizio i lavori di ricostruzione e di restauro delle parti danneggiate, eseguiti da maestranze locali, addestrate per l’occasione nell’utilizzo della pietra calcarea e delle tecnologie antiche. Inizialmente sono stati riedificati con conci squadrati in pietra e senza alcun uso del calcestruzzo armato i nuovi pilastri di destra, che conservano la forma e le fattezze di quelli originari, ma senza il difetto costruttivo che aveva causato i danni nella basilica. Quindi si è passati alla demolizione e alla successiva ricostruzione dei pilastri della navata sinistra. Successivamente sono ritornate all’antico splendore la navata centrale, la navata destra, i cupolini di destra, i contrafforti, gli archi trasversali e longitudinali. Ultimo capitolo della ricostruzione della cattedrale è stato l’elevazione della nuova cupola, pressoché identica all’originale: da essa differisce solo per piccole correzioni, come l’ispessimento di pochi millimetri della base del tamburo. La nuova struttura di copertura della chiesa non è di tipo latero-cementizio (come il solaio crollato risalente agli anni cinquanta), ma è stata ricostruita come era originariamente con capriate in legno e manto in coppi siciliani, mentre le volte sono realizzate con il tradizionale incannucciato e gesso. Una volta completati i lavori di ricostruzione in muratura, sono stati ripristinati infine gli apparati decorativi in stucco, come capitelli, trabeazione e cornici.
La ricostruzione è stata dunque eseguita con gli stessi materiali e con le tecniche del Settecento. Sono state utilizzate pietre locali come la pietra calcarea bianca per le strutture verticali, l’arenaria per le strutture archivoltate e la pietra di Modica per la pavimentazione, assemblate però con moderni metodi antisismici. Proprio per migliorare la resistenza ai forti terremoti si è fatto ricorso infatti a materiali come la fibra di carbonio.
A conclusione di questo lavoro di ricostruzione e di restauro dell’esistente, dopo undici anni dal crollo parziale, il 18 giugno 2007 la chiesa è stata riaperta al culto.
Una nuova decorazione pittorica è iniziata nell’estate 2009 dai pennacchi della cupola. Nella cerimonia tenutasi domenica 13 febbraio 2011, è stato inaugurato il grande affresco della cupola, raffigurante la Pentecoste, e dei pennacchi, con i quattro evangelisti, del pittore russo Oleg Supereko. Nella stessa occasione sono state inaugurate le vetrate del tamburo, realizzate dall’artista toscano Francesco Mori, e sono stati benedetti il nuovo altare, la croce e l’ambone in bronzo argentato di ispirazione berniniana dello scultore romano Giuseppe Ducrot.
Nel catino absidale è stato dipinto dal marchigiano Bruno d’Arcevia l’affresco del Cristo Pantocratore: la figura centrale del Cristo trionfante sulla morte è affiancata alla destra da San Giovanni Battista, il precursore, e alla sinistra dalla Vergine Maria. Sopra di essi una fiamma con la colomba simbolo dello Spirito Santo e la figura dell’Eterno Padre.
Nel luglio 2013 è stata ultimata la posa in opera, all’interno delle nicchie delle navate laterali, delle dodici sculture in gesso bianco (come quelle del Serpotta), alte un metro e ottanta centimetri, alle quali si aggiungono i due Santi Patroni d’Italia, che sono collocati ai lati dell’ingresso principale.

La Cattedrale

La Cattedrale – Interno

La Cattedrale – Interno

La Cattedrale – Interno
Nella cattedrale, dal 2016, ci sono anche due “totem” (uno è una croce) realizzati con pezzi di legno dei barconi rimasti sulle spiagge di quest’angolo di Sicilia che Elia Li Gioi, artista, professore ed ex sindaco di Avola, ha assemblato aggiungendo solo schizzi di vernice rossa a ricordare il dolore che queste opere vogliono raccontare.

L’opera di Elia Li Gioi
Fuori dalla cattedrale si può vedere anche una “infiorata” simulata con pietre colorate, realizzata in favore dell’OPAM (Opera di Promozione dell’Alfabetizzazione nel Mondo).
Quella dell’infiorata di Noto, fatta però con fiori veri (ma ora non è stagione), è una tradizione riproposta annualmente la terza Domenica di Maggio. Si tratta di un famoso “tappeto fiorito”, che copre la Via Corrado Nicolaci, fatto di varie composizioni progettate e disegnate da artisti locali, ispirate ad un singolo tema che viene scelto ogni anno. Il tappeto, di circa 700 mq, richiede l’impiego di circa 400 mila fiori, tra margherite (in prevalenza), rose, garofani e vari fiori di campo, che le campagne netine nel mese di Maggio concedono in abbondanza. Purtroppo l’edizione 2020 si è svolta esclusivamente via social a causa dell’emergenza COVID-19. I cittadini hanno potuto ammirarla e celebrare le bellezze barocche della città di Noto tramite un video ufficiale pubblicato sulla pagina FB del Comune di Noto. Lo potete guardare qui.

Chiesa di Montevergine
Bisogna dare uno sguardo anche ai balconi in ferro battuto del restaurato Palazzo Villadorata, che sono sostenuti da un’incredibile varietà di figure grottesche – mostri mitologici, grifoni, cherubini e sirene. Ho letto che proprio qui si è svolto l’aperitivo-party dei Ferragnez la sera prima del matrimonio, che poi si è tenuto in una villa fuori Noto, ma registro con piacere che (almeno all’esterno del palazzo) non c’è nessuna targa o stele celebrativa che ricordi l’avvenimento.

I balconi di Palazzo Villadorata-Nicolaci
È bello anche addentrarsi in qualche baglio. Nel territorio siciliano, il baglio (bagghiu) è un ampio cortile, ma per estensione la parola può indicare una villa-fattoria fortificata con cortile, come quelle che si possono trovare nelle campagne. Nel caso di Noto si tratta di bagli di case cittadine. Un portone d’ingresso permetteva l’accesso al grande cortile anche alle carrozze e ai carriaggi da trasporto. In genere una parte dell’edificio a scopo abitativo aveva uno o più piani alti nei quali abitava il “padrone” con la sua famiglia. I piani bassi erano destinati ai contadini e al deposito delle provviste e dei foraggi. All’interno del cortile erano anche le stalle. Altri locali servivano per il deposito degli attrezzi da lavoro e come ricovero delle carrozze padronali.

Teatro Tina Di Lorenzo

Teatro Tina Di Lorenzo

Teatro Tina Di Lorenzo
A questo punto possiamo anche concederci una pausa con una delle più grandi istituzioni siciliane del cibo, l’accoppiata granita + brioscia. Non credo di dovervi spiegare di che si tratta. Mi limito a sottolineare che, manco a dirlo, le origini della granita vengono solitamente fatte risalire alla dominazione araba in Sicilia. Gli arabi portarono con sé la ricetta dello sherbet, bevanda ghiacciata aromatizzata con succhi di frutta o acqua di rose. La brioscia siciliana è preparata con pasta lievitata all’uovo ed è quasi sempre sormontata da una pallina (chiamata tuppu o coppola o anche naso). A granita câ brioscia era ed è la colazione (o lo spuntino di metà mattina) tipica dei siciliani, specialmente in estate. In questa zona della Sicilia è particolarmente consigliabile la granita alla mandorla, come quella in foto (ricordate le mandorle di Avola?), ma sono ottime anche quelle al limone, ai gelsi, al pistacchio, alla fragola, al caffè (su quella al caffè tradizionalmente “ci va” la panna)… mi fermo qui perché l’acquolina starà già sgorgando a fiumi.
Così ritemprati, siamo pronti per un’altra bella passeggiata e poi per ripartire verso Noto antica, dove ci fermeremo per il pranzo al sacco. Circondata da imponenti mura (molte delle quali ancora in piedi) e da profonde vallate del monte Alveria, l’antica Noto non fu mai presa con la forza. Solo il violento terremoto del 1693 riuscì a distruggerla.
In epoca preistorica il monte Alveria era costellato da piccoli nuclei abitativi, costituiti principalmente da capanne, separati ed indipendenti gli uni dagli altri. Un primo nucleo cittadino fu probabilmente fondato in età ellenica. Durante l’età romana, probabilmente, incominciò ad essere abitata anche la sommità della montagna.
Sotto la dominazione normanna l’intera montagna viene fortificata con poderose mura, mentre i quartieri sulla sommità si espandono ed assumono un ruolo centrale, essendo proprio lì il castello ed altri importanti edifici.
Nel XVII secolo, la città si arricchisce ulteriormente di monumenti, e molti dei restanti vengono abbelliti secondo i canoni del nuovo stile barocco.
La natura medievale dell’impianto urbanistico e quella geologica del terreno furono una delle cause più importanti dell’abbandono del vecchio sito: era pressoché impossibile ricostruire la città secondo i canoni urbanistici della fine del XVII secolo.

Mappa di Noto Antica
Passeggiando tra le rovine, si fatica un po’ a rendersi conto di tutto ciò, anche perché lo stato di manutenzione è carente e diverse parti non sono realmente fruibili senza avventurarsi in luoghi impervi.
La struttura del castello venne edificata nel 1091 dal Duca Giordano d’Altavilla. Nel 1430 il duca Pietro d’Aragona fece eseguire lavori di ampliamento, poi nel 1600 circa il castello venne nuovamente ampliato onde ospitare le bocche da fuoco. Nei pressi dell’ingresso della Porta della Montagna sono ancora visibili le aperture per i cannoni. Il terremoto distrusse gran parte del castello, anche se diverse parti sono in buono stato di conservazione.

Notoa Antica – Porta della Montagna

Noto Antica – Il castello
Per noi, adesso, sta diventando forte il richiamo del mare, per cui ci dirigiamo verso la riserva naturale di Vendicari.
La riserva naturale orientata “Oasi Faunistica di Vendicari” è stata istituita nel 1984 dalla Regione Siciliana. Si trova precisamente tra Noto e Pachino (provincia di Siracusa) con un territorio che si estende per circa 1512 ettari.
All’interno della riserva, vive (quasi) indisturbato un intero ecosistema. Ci sono paesaggi mozzafiato, vegetazione fitta che si apre improvvisamente a un mare cristallino, spiagge lunghissime che in poche centinaia di metri diventano rocce a strapiombo su un mare profondo.
Con un po’ di fortuna si possono osservare fenicotteri, aironi, cicogne che sostano qui prima di raggiungere le mete migratorie definitive. Noi abbiamo visto qualcosa, probabilmente fenicotteri e forse qualche airone, ma così lontani da poterli difficilmente identificare.

Riserva Naturale di Vendicari – Pantano
Infatti, entrando dall’ingresso principale della riserva, ci troviamo di fronte alla scelta se fermarci qui e, prima o dopo il bagno, vedere la tonnara, oppure andare a fare il bagno a Calamosche, che è decisamente la spiaggia più bella della riserva e una delle più belle della Sicilia.
La pesca del tonno ha origini antichissime. Se ne hanno testimonianze grafiche da incisioni e pitture rupestri risalenti alla preistoria. Le tecniche della pesca e della lavorazione del tonno furono affinate nel tempo fino ad arrivare – indovinate – agli arabi, che diffusero il sistema delle reti fisse divise in camere. Lo stesso schema strutturale lo ritroviamo nella Tonnara di Vendicari, la cui origine è appunto di natura araba (anche questa!).
La tonnara di Vendicari fu una tonnara di ritorno, cioè una tonnara che pescava i tonni e gli sgombri che dopo la stagione degli amori ritornavano in mare aperto. Nei periodi di massimo splendore arrivò a contare fino a 44 tonnaroti e 2 rais (capi) più una cinquantina di terrazzini che si occupavano della riparazione e trasformazione del pescato.
Notizie certe della tonnara di Vendicari si hanno solo a partire dal 1600 quando nell’isola si attiva un processo di liquidazione e privatizzazione del regio patrimonio al fine di rimpinguare le casse dello Stato, tonnare comprese.
Nel 1655 Vendicari fu acquistata insieme alle tre consorelle di Marzamemi, Fiume di Noto e Santa Panagia da Simone Calascibetta, giudice della Regia Corte di Palermo, divenuto Barone con l’acquisizione delle tonnare. Per tutta la seconda metà del 1600 l’attività delle tonnare della Sicilia orientale fu monopolizzata dalla famiglia Nicolaci: il loro dominio sulla pesca del tonno li renderà ricchi e influenti imprenditori fino a tempi recenti.
Condizionata dalle vicine tonnare di Marzamemi e Pozzallo, più efficienti e favorite da migliori contesti ambientali, la tonnara di Vendicari fu soggetta a periodi di magra e anche di chiusura nella seconda metà del 1800.
L’attività rifiorì nel corso del secolo scorso, registrando un consistente incremento del pescato. Fu in quel contesto che un nobile di Avola, Antonino Modica Munafò, già in possesso delle saline di Vendicari, ebbe in concessione l’intero impianto: avvio così una profonda ristrutturazione sui resti della vecchia struttura settecentesca.
La pesca del tonno di Vendicari si interruppe con lo sbarco degli alleati durante la seconda guerra mondiale, anche se l’attività si era molto ridimensionata già negli anni precedenti.
Oggi, quelli che erano i ruderi diroccati dello stabilimento con i suoi cento metri circa di lunghezza, i pilastri che ne sorreggevano il tetto, l’altissima ciminiera e le case dei pescatori sono stati restaurati e riconsegnati alla comunità.
Noi, però, optiamo per la seconda ipotesi e, dato che Calamosche sembra sia raggiungibile a piedi, decidiamo di cimentarci nell’impresa, nonostante il sole cocente. Anche perché le spiagge di Vendicari, complice la domenica, sembrano piuttosto affollate. Dobbiamo poi scoprire, però, che è molto meno facile di quello che sembrava… lungo il percorso continuiamo a interrogare sistematicamente tutti quelli che stanno tornando per capire quanto manca, ma otteniamo ogni volta una risposta che contraddice la precedente, in termini di tempo e/o di distanze. Logisticamente non è stata una scelta eccezionale, tant’è vero che poi Giulio e Rosellina sono dovuti venire a prenderci all’altro ingresso del parco, che è (relativamente) vicino alla spiaggia di Calamosche, però… effettivamente la spiaggia meritava davvero. E, arrivando a pomeriggio inoltrato, è ancora più piacevole. Ci troviamo un posto senza invadere nessuno degli spazi “recintati” con rametti e materiali di fortuna dalle famigliole già presenti per garantire il distanziamento, mentre qualcuno inizia già a fare i bagagli per venire via, e ci lanciamo in acqua.

Calamosche

Calamosche

Calamosche
Si ritorna poi a Modica, anche se con qualche rallentamento (il traffico è quello della domenica). Doccia superveloce e si cena.
Stasera il menù propone: Crema di ceci con carota, prezzemolo e pepe nero e poi parmigiana di melanzane alla siciliana, che si differenzia da quella “classica” perché si aggiungono le uova sode nel ripieno.
Dopo di che, dato che abbiamo cenato tardi (orario molto siciliano), rimaniamo qui nella nostra bella sala con vista sulle luci di Modica a chiacchierare ancora un po’ (il gruppo è già molto affiatato) e poi possiamo anche ritirarci direttamente nei nostri appartamenti per un sonno ristoratore, dato che domani è il giorno del trekking in Cava Ispica.
(TO BE CONTINUED…)
Grazie infinite a Rosellina, Graziana e Carmela de “I tetti di Siciliando” e a ViaggieMiraggi, in particolare a Giulio.