Quattro giorni a Palermo con Radio Popolare e Viaggiemiraggi
Venerdì 23 ottobre 2020
Dopo le emozioni di ieri a Cinisi, la nostra prima giornata piena a Palermo, alla scoperta dei suoi mille volti, comincia con la colazione sulla terrazza del nostro Hotel, dalla quale si gode una magnifica vista sui quartieri del centro città: si chiama Quattro Canti e non a caso, siamo davvero a due passi dall’omonima piazza che è il punto focale del centro storico, con Corso Vittorio Emanuele e Via Maqueda che lì si incrociano e che delimitano i quattro quartieri storici: la Vucciria a nord, l’Albergheria a sud, la Kalsa a est e il Capo a ovest. Fa ancora fresco, ma il sole del mattino accende già di luce calda le cupole di San Giuseppe dei Teatini e di Santa Caterina.
Da qui in un attimo attraversiamo la strada e siamo in Piazza Pretoria, la piazza sulla quale le due chiese si affacciano, insieme al palazzo municipale. La piazza è dominata dalla fontana cinquecentesca con i suoi vari livelli che digradano in cerchi concentrici su cui si affollano statue di ninfe senza veli, tritoni e divinità rappresentate nelle pose più diverse e insolite. Progettata per la villa toscana di Don Pedro di Toledo, la fontana fu acquistata dalla città di Palermo nel 1573 con il preciso scopo di superare in bellezza e grandiosità la fontana di Orione che da poco era stata realizzata a Messina. Ma, oltre che come Fontana Pretoria, è nota anche come Fontana dello Scandalo o della Vergogna, perché la leggenda vuole che questa fu all’epoca la reazione dei fedeli di San Giuseppe dei Teatini e delle suore del monastero di Santa Caterina alla vista di tanta nudità.

Piazza Pretoria

La Fontana Pretoria

I Quattro Canti

Il carro di Santa Rosalia in Piazza Bellini (foto di Simona Barranca)

Chiesa del Gesù o Casa Professa
Noi però questa mattina non abbiamo tanto tempo per soffermarci qui, perché sono arrivati Marco e Rosalia della cooperativa Terradamare per condurci a Ballarò, dove comincerà veramente la nostra giornata.
Ballarò è il mercato dell’Albergheria, e questo lo sanno tutti. È un mercato ancora estremamente vivo e pulsante, al contrario di quello della Vucciria, forse più famoso (almeno prima che Ballarò diventasse un talk show politico) ma purtroppo in declino da molti anni. Ma perché si chiama Ballarò? Ballarò – ci racconta Marco – deriva probabilmente da Bahlarà, che era un villaggio nei pressi dell’odierna Monreale da dove provenivano i mercanti della Palermo araba con le loro mercanzie. “Si vucìa, s’abbannìa, Ballarò è magia” – Recita lo slogan dipinto sul muro che ci accoglie. Cosa significhi vuciare è intuibile, più difficile il verbo abbanniare. L’abbanniata è quel modo classico che da sempre hanno i venditori di Ballarò per invitare le persone a comprare, molto urlato ma con una certa grazia, con una cantilena che è quasi una melodia, un suono che chi conosce i souq del nordafrica o del Medio Oriente non fa certo fatica a capire da dove venga: certo insistente ma anche in qualche modo allegro e scanzonato, che racconta la fatica di portare a casa la giornata ma anche la gioia di stare al mondo.
Ballarò è questo ma è anche altro: è un teatro all’aperto non solo di mercanzie ma anche di racconti, quelli che nascono dalla vita quotidiana e da un particolare senso di comunità che caratterizza il mercato e le persone che lo fanno vivere. Per scoprirlo ci fermiamo da Gina, dell’antica caffetteria Di Maria, uno dei locali storici di Ballarò, a prendere un caffè e un delizioso cannolo.
La cooperativa Terradamare, che Marco e Rosalia qui rappresentano, si occupa di far conoscere i luoghi “scogniti” (nascosti) di Palermo e di tenere vive le tradizioni dei quartieri del centro storico, ma non solo. Durante il lockdown di primavera con i suoi volontari, collaborando col Comune, ha raccolto e consegnato generi di prima necessità per chi ne aveva bisogno e non poteva uscire, e ha offerto servizi anche a tutte le persone che non erano in grado di caricare le proprie istanze sul sito del Comune. Molte famiglie che hanno aiutato in quel periodo – racconta Marco – non si erano mai avvicinate per chiedere, per quel senso di vergogna che prova chi non è abituato a dover chiedere. Le difficoltà sono state tante, eppure il quartiere ha retto grazie a una grande rete di solidarietà umana.
Rosalia, che – dice Marco – è quella “studiata”, ci inizia invece a introdurre alle peculiarità del centro storico di Palermo. Via (o Corso) Vittorio Emanuele, dove si trova il nostro albergo, è una delle strade più antiche di Palermo, che esiste in pratica fin dalle origini (Palermo fu fondata dai Fenici nell’VIII secolo a.C.). Il tratto dove siamo noi è stato realizzato a partire dalla seconda metà del ‘500, arrivando fino al mare. Via Vittorio Emanuele dai palermitani è conosciuta come il cassaro, dall’arabo al Qasr, cioè la strada che porta al castello, che sarebbe poi il Palazzo Reale, oggi Palazzo dei Normanni, che si trova infatti al limite del quartiere dell’Albergheria, lo stesso di Ballarò. La piazza dei Quattro Canti è nota anche come Teatro del Sole, perché in ogni momento della giornata uno dei canti è illuminato dal sole, o l’Ottagono del Sole, o Piazza Villena, dal nome del viceré spagnolo che fece costruire i quattro palazzi barocchi che la delimitano, in ciascuno dei quali c’è la statua di una delle sante protettrici della città: Santa Cristina, Santa Ninfa, Sant’Oliva e Sant’Agata (che tra l’altro è anche patrona di Catania, storica rivale di Palermo…). Ma la più protettrice e la più famosa di tutte è l’omonima della nostra Rosalia, che però ai Quattro Canti non c’è perché la devozione a lei, la santuzza, è iniziata solo in epoca successiva ai Quattro Canti, nel 1625, quando vennero ritrovati i suoi resti e si dice che salvò la città dalla peste. Passando da Piazza Bellini per venire qui, abbiamo visto il carro a lei dedicato per il suo “festino”, che quest’anno per l’emergenza sanitaria è stato un non-festino. Normalmente per il festino il 14 luglio tutta la popolazione scende nelle strade e il carro viene portato in processione per quello che è il momento “profano” della festa, mentre il 15 luglio hanno luogo le celebrazioni religiose, che in qualche modo hanno resistito anche al Covid: l’urna argentea della santa che si trova nella cattedrale è uscita, ma invece di fare la solita processione per tutti i quartieri è rimasta lì fuori nel portico della cattedrale, per poter essere comunque vista da tutti i palermitani. Il carro ora sta davanti alla Chiesa della Martorana e lei, con la sua corona di rose, il giglio che le ha dato il nome (Rosa-lia significa rosa e giglio) e il teschio, simbolo della vittoria sulla morte, è lì a vegliare ancora una volta sulla città, nell’epoca della nuova pandemia.
Prima di entrare a Ballarò c’è la Chiesa del Gesù (o Casa Professa), la chiesa gesuita dove si professava il nome di Gesù. La chiesa, come Palermo tutta, è frutto di una grande stratificazione culturale: stile arabo-normanno, barocco, liberty; tante culture e tanti elementi artistici che convivono. La precedente denominazione della chiesa, ancora visibile sulla sua facciata, è quella di Santa Maria della Grotta, perché siamo nella zona dove scorreva il fiume Kemonia, dall’andamento torrentizio, oggi interrato. Questa parte della città, prima di essere urbanizzata, era selvaggia, con diverse chiese ipogee, e laddove si trova la chiesa del Gesù c’era appunto un’antica chiesa in grotta, sopra la quale fu costruita prima una chiesa normanna e poi, in epoca barocca, l’attuale chiesa, poi bombardata durante la II Guerra Mondiale e ricostruita creando un contrasto tra elementi moderni ed elementi più antichi.
Poi è Gina, detta “la portiera di Ballarò’” perché apre presto e chiude tardi, a raccontare la storia della caffetteria che la sua famiglia gestisce da molti anni, che è sempre stata un punto di riferimento per tutta la gente del mercato di Ballarò e che lei ha preso in mano ora che i suoi genitori si godono la meritata pensione (ma non è stato facile convincerli…). Il dehors dove ci troviamo è circondato da muri decorati con bei murales, tra cui quello delle pecorelle realizzato dai bambini del quartiere nell’ambito del progetto Ballarò Tale, ideato dall’attore Alberto Nicolino e dall’artista Igor Scalisi Palminteri. Quest’ultimo ha aiutato i bambini a realizzare i dipinti mentre Nicolino ha incontrato i protagonisti delle storie, poi diventati murales, e ha trasmesso questo sapere ai bambini nel corso dei laboratori.
Il nome del progetto gioca sulla parola Tale, che in inglese significa racconto ma che ricorda anche il verbo siciliano taliari (guardare), uno dei tanti lasciti arabi nella lingua siciliana. Una delle storie più belle di Ballarò è quella di Peppe schiera, poeta di strada e cantastorie palermitano, che raccontava storie e declamava le sue poesie seduto sulle cassette della frutta del mercato. Figlio del popolo, di una famiglia povera di braccianti, al popolo offrì la sua arte per molti anni prima di morire sotto un bombardamento alleato nel maggio del ’43. Questa è una delle sue poesie, forse quella che più lo rappresenta:
ARRIVA LU PUETA
Arriva lu pueta Giuseppi Schiera
la fabbrica ambulanti r’u pitittu.
Viva Palermu e Santa Rusulia,
c’aju pi casa la so’ grutta
e pi tettu lu celu.
Lu prifettu lu sapi
e si nni futti,
mi ricivi nto gabinettu
ma dici sempri ca un tettu
mi sarà concessu.
Iu cci dicu
ca macari senza cessu
m’accuntentu.
Passanu li misi
e ancora iu aspettu.
Lu sinnacu Di Libertu
però mi ricivi sempri all’apertu
picchi o Cumuni
pi mancanza d’acqua
c’è sempri fetu.
Ma a me piace anche questa, sull’uomo forte dei suoi tempi… (questa forse necessita di traduzione)
‘U Duci nni cunnuci (il duce ci conduce)
contru u palu ra luci. (contro il palo della luce)
Stu beddu Mussulinu
‘un va mancu un carrìnu (non vale manco un carlino*)
megghiu ca va cogghi pitrusinu (meglio che vada a cogliere il prezzemolo)
nno beddu jardinu (nel bel giardino)
a munti Piddirinu. (al monte Pellegrino)
*nell’Italia di fine ‘800 – inizio ‘900 i 10 centesimi di lira erano chiamati “Carlino” per analogia con altre monete di taglio simile dello Stato Pontificio, del Regno di Sardegna e dei Borboni
Se volete saperne di più su di lui, qui si trova parecchio:
https://peppeschiera.wordpress.com/
Dobbiamo lasciare Gina, anche se il posto è piacevole. Lei per salutarci ci regala, però, un “coppo” (‘u coppu, da queste parti) di frutta secca assortita e semi di zucca: cosa c’è di meglio, da sgranocchiare mentre si passeggia per il mercato?
Sui banchi si vedono naturalmente fichi d’india, e la cosiddetta “frutta di Martorana”, fatta di marzapane. Secondo una nota tradizione tra storia e leggenda, la frutta di Martorana è nata perché le monache del monastero della Martorana, dovendo abbellire il monastero con della frutta per la visita del papa (o secondo un’altra versione dell’Imperatore Carlo V) e non avendo abbastanza frutti raccolti dal loro giardino, ne crearono di nuovi con farina di mandorle e zucchero.

La frutta di Martorana
Attraversando la zona “off” di Ballarò, dove si compra e si vende un po’ di tutto in maniera – diciamo – non troppo autorizzata, ci spostiamo verso Terranova, il tempio delle caramelle alla carruba, che qui si producono da 130 anni e che ormai sono una tradizione tipicamente siciliana. In Sicilia la carruba si trova ovunque, soprattutto nella Sicilia orientale: l’ho potuto sperimentare l’estate scorsa a Modica e dintorni. È appunto nel 1890 che il capostipite dei Terranova, trisavolo dell’attuale proprietario, avviò proprio qui a Ballarò la produzione artigianale di caramelle, via via affinando una straordinaria formula-ricetta, poi brevettata, con cui riuscì a imprigionare nei cristalli di puro zucchero tutto il sapore e le qualità benefiche di un frutto povero, ma naturalmente dolce e gustoso, che solo parecchi decenni dopo la scienza alimentare avrebbe scoperto essere così ricco di proprietà lenitive e salutari. Sembra che faccia bene per un sacco di cose: contro tosse, influenza, osteoporosi, allergie ma soprattutto contro i problemi gastrointestinali, in particolare la diarrea; sembra inoltre che possa aiutare a combattere il colesterolo e a proteggere la salute di gola e corde vocali.
Oggi Terranova, in questo piccolo laboratorio, riesce a produrre 1200 kg di caramelle al giorno, che è un nulla rispetto ai numeri industriali, ma è tantissimo per una realtà artigianale come questa.
Noi abbiamo potuto vedere il momento della “colata”, quando la massa fusa che costituirà le caramelle viene versata da un pentolone. Il sistema di cottura viene chiamato “a cielo aperto” ed è, ancora oggi che siamo alla quinta generazione, quello che usava il fondatore. Ora ci sono delle macchine che velocizzano la produzione, in pratica una linea di stampaggio (qui si può vedere anche la prima macchinetta manuale del 1890, ancora funzionante ma ora solo in esposizione), ma per il resto la ricetta è invariata. Fuori dalla Sicilia queste caramelle sono poco conosciute, ma per tutti i siciliani sono veramente una tradizione, qualcosa che riporta all’infanzia. Il fondatore, originario della provincia di Agrigento, aveva molti commerci con la zona del ragusano, da dove ancora oggi arriva la materia prima. Ogni kg di concentrato utilizzato contiene 67 kg di carrube. Da qualche anno sono nati altri gusti (oggi 39 in totale), tra cui sesamo e miele, zenzero e tanti altri; quindi oggi Terranova non è solo caramelle alla carruba, anche se questo resta il loro prodotto “per antonomasia”. Tutto viene prodotto senza conservanti e coloranti, o meglio utilizzando coloranti naturali come il concentrato di carota nera, la spirulina e il cartamo.
Inutile dire che anche qui abbiamo assaggiato e che, come bambini che scoprono una nuova golosità, abbiamo fatto incetta di caramelle di vari gusti.
Passeggiando per il centro di Palermo non si può fare a meno di notare che, purtroppo, molti palazzi versano ancora in pessime condizioni: capita spesso di vedere balconi con sotto una sorta di imbragatura destinata a contenere eventuali calcinacci che si possono staccare, o addirittura protezioni con la stessa funzione che corrono lungo tutta la facciata, sotto il primo piano.
La tappa successiva è un altro luogo significativo di Ballarò: un campetto di calcio dove giocano tutti i bambini della zona, che a poco a poco negli anni è stato sistemato, con tanto di prato sintetico. Qui l’artista Igor Scalisi Palminteri ha realizzato due anni fa un enorme dipinto murale (su parete di sedici metri per cinque) raffigurante San Benedetto il Moro, un santo del 1500 proveniente da una famiglia di schiavi (probabilmente etiopi) che è stato una figura importantissima a Palermo, è copatrono della città insieme a Santa Rosalia ed era perfetto per lanciare un messaggio antirazzista nel contesto di Ballarò, oggi anche quartiere multietnico dove persone da diversissime provenienze giocano insieme.
Io sono già stato a Palermo 11 anni fa, conosco un po’ la città ed ero già stato naturalmente anche a Ballarò, ma poterlo vivere, apprezzare ed… assaporare così è un’altra cosa, che ve lo dico a fare?
Da Ballarò raggiungiamo un posto il cui nome è un programma: Al Fresco, un bel giardino-bistrot che deve essere veramente un’oasi di ombra e verde preziosa nelle torride giornate estive. Qui si possono trovare i biscotti prodotti nel laboratorio di “Cotti in Fragranza” all’interno del carcere minorile Malaspina di Palermo.
È un progetto buono, basato su una precisa etica della responsabilità, in cui i giovani coinvolti sono protagonisti di tutte le scelte, dai nomi dei prodotti alle strategie di marketing. Anche dopo aver concluso il proprio percorso detentivo, i ragazzi continuano a lavorare al progetto. Cotti in Fragranza (non serve spiegare il gioco di parole contenuto in questo nome) è un’impresa sociale all’avanguardia che utilizza materie prime di alta qualità per una produzione made in Sicily d’eccellenza.
Chi ci parla del progetto è Nadia, che lo segue a tempo quasi pieno, ma trova il tempo e il modo di lavorare anche in carcere, quello degli adulti, con gli ergastolani.
Il prodotto “di punta” sono i Buonicuore, frollini aromatizzati al mandarino: mandarini raccolti a Ciaculli in terreni confiscati alla mafia, farina Maiorca Bio molita a pietra, zucchero integrale di canna Muscovado, lievito biologico, burro e latte a km zero. Ma ci sono anche i Parrapicca (al limone e zenzero) e i Coccitacca (cioccolato di Modica e scorze d’arancia). I ragazzi hanno appunto contribuito anche alla scelta dei nomi, e dello slogan: Se non li gusti non li puoi giudicare, proprio come loro, che non sono solo “malacarne”, come si dice a Palermo, ma sono anche buonicuore. Il nome Parrapicca, invece, viene da un’altra espressione tipicamente palermitana, che è “accattati un parrapicca”, cioè comprati un “parlapoco”, qualcosa che ti riempia la bocca e ti faccia parlare meno. Il nome è stato scelto in un periodo in cui molti a Palermo avanzavano dei dubbi sulle possibilità di riuscita di questo progetto, e quindi è nato anche come risposta ironica a queste voci. In più nei Parrapicca c’è lo zenzero, che “picca” anche un pochino, e quindi era perfetto. Abbiamo anche i Mammucci, dei cantucci alle mandorle o al pistacchio, e si sono aggiunti poi anche i salati, con i Picciottelli al caciocavallo ed erbe aromatiche, all’olio o al pomodoro. Alcuni prodotti vengono fatti anche per conto terzi, per le cooperative di Libera Terra che lavorano sui beni confiscati alla mafia. I prodotti in questo momento raggiungono 60 punti vendita in tutta Italia e anche all’estero (in Belgio).
Il laboratorio si trova sì dentro il carcere, ma fuori dalle mura detentive, un fatto che è molto importante per i ragazzi. Alcuni di loro vivono anche in alloggi in affitto (sono sia detenuti che ex) e possono quindi iniziare a pensare e progettare una loro vita autonoma fuori dal carcere.
Nadia racconta che lei e Lucia, l’altra responsabile del progetto, si rendevano conto fin dall’inizio che era difficile offrire ai ragazzi diversi percorsi lavorativi facendo solo biscotti. Per questo hanno cominciato a specializzarsi anche nel catering. Da lì era nata l’esigenza di trovare un secondo nucleo operativo, fuori dal carcere, e quindi circa due anni fa hanno aperto una cucina nel bellissimo spazio dove ora ci troviamo, Al Fresco per l’appunto, che è un’ex infermeria dei frati cappuccini del 1600. Questo, che era il chiostro del convento, veniva utilizzato allora per far crescere piante officinali. Nel dicembre 2018 hanno cominciato a fornire pasti ai poli per i senza dimora della città e a un centro di accoglienza per migranti che si trovava anch’esso qui, ma anche a fare le prime esperienze serie di catering e ristorazione per eventi pubblici e privati. A settembre del 2019, grazie al grande impegno di tutti e senza finanziamenti pubblici (ciò che viene prodotto dalla cooperativa sociale viene reinvestito nel progetto), si riesce a ristrutturare e rianimare questo spazio, che prima era in stato di completo abbandono. In questo modo si dà sostenibilità al progetto, potendo assumere ragazzi del penale, ma contemporaneamente si riesce anche ad aprirlo ad altri soggetti a rischio di marginalità sociale, come migranti usciti dai sistemi di tutela, ragazzi senza dimora e disabili a causa di infortuni sul lavoro.
Ci sono anche due progetti futuri, già approvati: uno consentirà l’apertura di uno spazio per la ricezione turistica, sempre qui, con mini-appartamenti e stanze. Del resto ci troviamo pienamente all’interno di un percorso storico arabo-normanno, a due passi dalla cattedrale. Con l’altro Cotti in Fragranza potrà finalmente mettere piede anche in un carcere “per grandi”, il Pagliarelli di Palermo. Faranno formazione, sia nella sezione maschile che in quella femminile, sulla gestione di strutture turistiche e alberghiere. Alla fine dei tre anni di formazione, verranno assunte otto persone tra adulti e minori.
Insomma, un’esperienza e un progetto di quelli belli, che davvero aprono una porta alla speranza. Senza contare che i biscotti sono veramente buoni.
La nostra giornata, dopo un pranzo in pieno stile street food (Palermo è una delle città d’Italia ma forse del mondo dove la cultura del cibo di strada è più viva e ricca), continua alle catacombe dei Cappuccini alla Zisa, un altro quartiere di Palermo che prende il nome dal Castello della Zisa, uno dei pochi monumenti rimasti in città che sono una testimonianza “pura” del periodo della dominazione araba. La stessa parola Zisa viene dall’arabo aziz, che può avere diversi significati: bello, prezioso, prestigioso… in questo caso forse la traduzione più appropriata è “magnificente”.
Il convento dei Cappuccini ospita anche la tomba di Tomasi di Lampedusa, ma è noto soprattutto per lo spettacolo singolare e piuttosto macabro offerto dalle catacombe, dove sono contenuti i corpi mummificati di circa quattromila palermitani morti tra il XVII e il XIX secolo. Ci farà da guida Francesca, anche lei di Terradamare.
Originariamente riservate ai soli monaci del convento, in seguito le catacombe furono rese disponibili ai palermitani di elevato ceto sociale che garantivano generose donazioni al monastero sotto forma di proprietà o denaro per avere il privilegio, alla loro morte, di farsi imbalsamare dai monaci cappuccini. A tale scopo, a trapasso avvenuto i corpi venivano lasciati essiccare prima di essere lavati con l’aceto e cosparsi di arsenico e polvere di calce. Terminate queste operazioni venivano vestiti con il loro abito migliore e composti nella nicchia che era stata loro riservata.
I defunti venivano collocati secondo una rigida procedura che li distingueva per sesso, religione, professione e status sociale. Uomini e donne occupano corridoi separati e il settore riservato alle donne è ulteriormente distinto in una speciale sezione riservata alle vergini. La vista più sconcertante è quella del corpo quasi perfettamente conservato di Rosalia Lombardo, una bambina che morì a due anni nel 1920, anche se oggi il suo viso, una volta dall’aspetto veramente angelico, appare decisamente più annerito.
Per noi arriva, poi, un altro appuntamento atteso: quello con il progetto “Pomeriggi insieme” del CIAI (Centro Italiano Aiuti all’Infanzia) in favore dei bambini della Zisa, ospitato all’interno dell’ex manicomio di Palermo. A introdurcelo è Giulia, una delle persone che per il CIAI seguono questo progetto.
Entriamo nei locali dell’ex manicomio, come quasi sempre capita circondato da un grande parco, passando per una sala dove i bambini disegnano, costruiscono origami e fanno altri giochi educativi, per poi sbucare all’esterno nell’area verde dove, sempre rigorosamente distanziati e controllati dagli educatori, i bambini possono giocare all’aperto e sfogarsi un po’.
Il progetto, una volta ottenuto il finanziamento, è partito dalla riqualificazione di questo padiglione, che prima della chiusura ospitava le pazienti psichiatriche donne. È stato ovviamente un luogo di tanta sofferenza che però ora, come accade anche in realtà simili in diverse parti d’Italia, è stato recuperato e reso socialmente utile alla città. C’è una sala con un palcoscenico, perché il progetto si occupa in particolare di teatro e di educazione al teatro, sia per i bambini che con una rassegna dedicata agli adulti. Grazie al CIAI si è potuta intraprendere questa nuova sfida con i bambini del quartiere, che a tutt’oggi è uno dei quartieri più problematici del centro storico di Palermo, lasciando fuori le periferie dove ci sono situazioni tristemente famose come lo ZEN o il CEP. Tutti questi bambini, che sono una quindicina dai 6 agli 11 anni, vengono da contesti familiari difficili e stanno attraversando, come si può immaginare, un periodo molto difficile. L’iniziativa è nata l’estate scorsa, in questo giardino che durante sei settimane è stato trasformato, con il lavoro dei bambini, delle educatrici e dei facilitatori; facilitatori che sono migranti provenienti dall’ex SPRAR che si trova proprio qui sopra, in questo stesso edificio, e che sono riusciti a costruire una grande empatia con i bambini, “sfruttando” anche una manualità spesso molto sviluppata e facendo cose molto semplici ma che ai bambini sono piaciute molto. Anche perché i bambini, naturalmente, interagiscono con loro senza nessun tipo di struttura mentale e di pregiudizio. Il campus estivo è andato talmente bene che si è deciso di portarlo avanti anche in autunno e in inverno. Il campus è nato dall’idea del CIAI di attivare dei progetti sul territorio, non solo con minori migranti, ma anche con i bambini e le famiglie dei quartieri più disagiati. Giulia ha chiesto a Rossella, che si occupa di teatro patafisico (la patafisica è definita come la scienza che si prefigge di studiare il particolare e le eccezioni e spiegare l’universo supplementare al nostro), di collaborare per la realizzazione di questo campus. Ora collabora con loro anche Cotti in Fragranza, che abbiamo conosciuto questa mattina e che fornisce i pasti. Quest’estate ovviamente è stato un campus per riprendere energia, contatto con la natura, contatto con i giochi e con gli altri bambini stessi perché, essendo i piccoli stati molto tempo soli con le famiglie, si notavano in loro segnali di disagio. In questo percorso è coinvolto anche uno psicologo del CIAI che, in particolare in questo periodo “invernale” (anche se a noi sembra estate per Palermo la brutta stagione è questa, ndr), sta osservando i bambini anche nel loro rapporto con le famiglie e supportando il personale, perché da una domanda delle educatrici si è capito che ce n’era bisogno.
C’è anche un orto “sospeso”, realizzato dai bambini recuperando bottiglie di plastica e utilizzandole come vasi. Le attività si svolgono dal lunedì al giovedì. Il lunedì e il mercoledì i bambini arrivano “già mangiati”, gli altri giorni invece pranzano qui. Si cerca di costruire gruppi di massimo 7-8 bambini, data la normativa Covid, anche se gli spazi sono ampi. Qui a Palermo, tra l’altro, il tempo pieno a scuola non è ancora una realtà così diffusa come in altre zone d’Italia.
La compagnia del Piccolo Teatro Patafisico, che lavora con i bambini per questo progetto, ha una delle rassegne di teatro per bambini più importanti e seguite della città e spesso lavora con le associazioni nei quartieri con laboratori teatrali, artistici o di espressione in genere. La funzione del teatro, anche in questo progetto, oltre ad essere educativa, è quella di indicare che un’alternativa c’è sempre e comunque.
La storia di questo luogo nasce da quella del convento dei cappuccini, che si chiamava anche la Vinnicella perché i frati coltivavano delle piccole viti. I frati accoglievano anche tutte quelle persone che vivevano ai margini, soprattutto malati mentali. Da lì si cominciò a costruire, tra l’ottocento e i primi del novecento, delle strutture che potessero essere di servizio per queste persone, fino a quando queste strutture diventarono un manicomio vero e proprio. Quando con la legge Basaglia si riuscirono ad abbattere le mura dei manicomi, la struttura fu nel tempo riadattata e oggi ci sono anche uffici amministrativi per servizi pubblici e ambulatori per visite mediche, ma anche diverse associazioni.
E ora, appunto, c’è questo bellissimo progetto che riesce davvero a creare un circolo virtuoso per rompere le barriere del pregiudizio. L’unico problema, al momento, sembra che la richiesta sarebbe purtroppo superiore alla disponibilità di posti.
https://www.ciai.it/italia-prossima/pomeriggi-insieme/
E con questo si conclude una giornata piena e molto ricca, nonostante le restrizioni che già in parte ci sono e che anche qui come in Lombardia sembrano in via di inasprimento; ricca di esperienze… del gusto e soprattutto di incontri con progetti che è bello conoscere da vicino, per quanto possibile. Ma un’altra giornata così ci aspetta anche domani…
(TO BE CONTINUED…)
Grazie ancora a ViaggieMiraggi, a Radio Popolare, alla cooperativa Terradamare, a Cotti in Fragranza e al CIAI – Centro Italiano Aiuti all’Infanzia