Quattro giorni a Palermo con Radio Popolare e Viaggiemiraggi

Sabato 24 ottobre 2020

Anche oggi la giornata sarà un mix di incontri con progetti sociali e visite più a carattere storico-artistico-culturale, forse rispetto alla nostra prima giornata interamente palermitana con un po’ di attenzione in più a questo secondo aspetto.
Infatti si comincia con il Teatro Massimo. Costruito tra il 1875 e il 1897 per celebrare l’unificazione dell’Italia, il Teatro Massimo è diventato nel tempo un simbolo dei trionfi e delle tragedie che da sempre hanno caratterizzato le vicende di Palermo. La sua lunga storia ha risentito dei conflitti di potere e delle lotte per la supremazia che hanno lacerato – e per molti aspetti continuano a farlo – la società palermitana, in cui l’orgoglio civico e la creatività culturale hanno spesso cozzato contro l’ombra sinistra della burocrazia e dei lunghi tentacoli della mafia. È sintomatico, in tal senso, il tempo straordinariamente lungo – 24 anni – occorso per portare a termine l’ultimo restauro. Non a caso presso il Teatro Massimo è stata girata la scena finale del Padrino Parte III.
Il Teatro Massimo di Palermo è il più grande edificio teatrale lirico d’Italia, uno dei più grandi d’Europa e terzo per ordine di grandezza architettonica dopo l’Opéra National di Parigi e la Staatsoper di Vienna.
Alla sua apertura, per monumentalità e dimensione (oltre 7.730 metri quadrati), suscitò le invidie di molti. I lavori iniziarono nel 1875, dopo vicende travagliate che seguirono il concorso del 1864 vinto dall’architetto Giovan Battista Filippo Basile, alla morte del quale subentrò il figlio Ernesto Basile, anch’egli architetto, il quale accettò di ultimare l’opera in corso del padre su richiesta del Comune di Palermo, completando inoltre i disegni necessari per la prosecuzione dei lavori del Teatro.
Basile aveva organizzato dei corsi di formazione d’arte classica sia per l’intaglio della pietra che per la decorazione atti a formare un adeguato numero di esperti maestri preparati a dare le volute forme e a poter rifinire, nei minimi dettagli richiesti, tutti gli innumerevoli blocchi di pietra viva da taglio necessari all’edificazione dell’imponente teatro; per la costruzione, di maestri dell’intaglio se ne impiegarono addirittura circa centocinquanta; fu l’occasione di ideare anche una rivoluzionaria gru azionata da un motore a vapore e caratterizzata da un ingegnoso sistema di pulegge, carrucole e cavi che s’impiegò effettivamente e con successo durante l’edificazione per il sollevamento di grossi massi, capitelli e colonne. Il 16 maggio 1897 avvenne l’apertura ufficiale del Teatro con Falstaff di Verdi.
Dal punto di vista architettonico, la simmetria compositiva, la ripetizione costante degli elementi (colonne, finestre ad archi) e la decorazione rigorosamente composta definiscono una struttura spaziale semplice ed una volumetria chiara, armonica e geometrica, d’ispirazione greca e romana. I riferimenti formali di questo edificio sono, oltre che nei teatri antichi, anche nelle costruzioni religiose e pubbliche romane, quali il tempio, la basilica e, soprattutto, le terme.
Sul frontone della facciata si può leggere il motto “L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire”. L’esterno del teatro presenta un pronao corinzio a sei colonne elevato su una monumentale scalinata ai lati della quale sono posti due leoni bronzei con le allegorie della Tragedia e della Lirica.

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L’apparato architettonico della grande sala si deve all’architetto Ernesto Basile, figlio di Giovan Battista, autore del complesso generale dell’opera e raffinatissimo rappresentante del Liberty europeo. La platea dispone di uno speciale soffitto mobile composto da grandi pannelli lignei affrescati (i cosiddetti petali) che vengono mossi da un meccanismo di gestione dell’apertura modulabile verso l’alto, che consente l’aerazione dell’intero ambiente. Il sistema permette al teatro di non necessitare di aerazione forzata per la ventilazione e la climatizzazione interna.

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Nella rotonda del mezzogiorno o sala pompeiana, la sala riservata in origine ai soli uomini, si può constatare un effetto di risonanza particolarissimo, appositamente ottenuto dall’architetto tramite una leggera asimmetria della sala, tale per cui chi si trova al centro esatto della sala ha la percezione di udire la propria voce amplificata a dismisura, mentre nel resto dell’ambiente la risonanza è enorme e tale per cui risulta impossibile comprendere dall’esterno della rotonda quanto viene detto al suo interno. Noi abbiamo “testato” questo effetto… alla nostra maniera, cioè facendoci come sempre riconoscere: del resto siamo ascoltatori di Radio Popolare… e se, per di più, ci sono nel gruppo diverse orgogliose appartenenti a cori di varie parti della Lombardia, ma tutti dediti a canti di lotta di tutte le rivoluzioni del mondo, come non attingere a quel vasto repertorio? La prima esecuzione, di cui purtroppo mancano testimonianze audio o video, è stata un’appassionata “Morti di Reggio Emilia”, ma poi, a grande richiesta, c’è stata anche un’altrettanto intensa “Fischia il vento”, che posso farvi gustare:

Dato che il teatro fu edificato fra il bastione di San Vito e la Porta Maqueda abbattendo la chiesa di San Francesco delle Stimmate e l’annesso convento e chiesa di San Giuliano, la tradizione narra che una suora detta “la monachella” (la prima Madre Superiora del convento) si aggiri ancora per le sale del teatro. Alcuni sostengono di aver visto l’ombra di una suora aggirarsi dietro le quinte e nei sotterranei e, stando alla tradizione, essa lancerebbe delle vere e proprie maledizioni. Si dice anche che chi non crede alla leggenda inciampi in un particolare gradino, detto appunto “gradino della suora”. Noi però, avvertiti di questo dalla nostra giovane e brava guida, siamo riusciti a uscire tutti senza danni e senza cadere nel tranello teso dalla temibile superiora trapassata, ancora irritata per l’affronto.

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E così, dopo una foto di gruppo sulla monumentale scalinata, siamo pronti per la tappa successiva, che per i più accesi fan del barocco è la chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, a detta di molti la più bella delle chiese barocche di Palermo, il cui sontuoso interno è letteralmente traboccante di solenni decorazioni a stucco, affreschi dalle morbide tonalità pastello e preziosi altari tempestati di lapislazzuli e ametiste.

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La Chiesa della Martorana, San Cataldo e il carro di Santa Rosalia

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La chiesa venne edificata per volontà della priora Suor Maria del Carretto nel 1566 e ultimata nel 1596, su un edificio pre-esistente. L’edificio ha subito notevoli danni a causa dei bombardamenti anglo-americani del 1943. Dal luglio 2014 la chiesa non accoglie più le monache domenicane ma è affidata alla curia palermitana. La proprietà è del FEC (Fondo Edifici Culto).

Le origini sono in epoca sveva, quando col beneplacito dell’imperatore Federico II di Svevia l’Ordine dei frati predicatori giunge in Sicilia, nella fattispecie a Palermo, mentre San Domenico è ancora attivo e ha appena costituito l’ordine in Francia nel 1216 – 1220. Nel 1217 i primi frati sono ospitati inizialmente dall’Ordine teutonico della Magione fondato da religiosi tedeschi, quindi ben visti agli occhi dell’Imperatore. Riparano brevemente nell’ex monastero delle suore basiliane presso la primitiva chiesa di San Matteo al Cassaro. Sotto la direzione dell’ordine, nella sede del Cassaro è istituito il monastero femminile di Santa Caterina.
Nel 1500, l’istituzione perde col tempo la caratteristica peculiare d’assistenza rivolta alle classi femminili più deboli e svantaggiate quali le semplici donne meretrici, rivolgendosi in modo marcato alla clausura delle classi nobiliari, pertanto viene ingrandita la struttura con l’incorporazione della primitiva chiesa di San Matteo.
Nel 1566 – 1596 la ricostruzione avviene per opera della madre priora suor Maria del Carretto. Il progetto architettonico per molto tempo è stato attribuito all’architetto Giorgio di Faccio, ma studi più recenti dimostrano il coinvolgimento di architetti e costruttori quali il fiorentino Francesco Camilliani e il milanese Antonio Muttone, artisti già impegnati per la nuova rimodulazione di piazza Pretoria.
Sul portale d’ingresso è presente una raggiera con la raffigurazione di un cane che reca la fiaccola, simbolo dei Domenicani.

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Santa Caterina d’Alessandria

All’interno, sulle pareti statue raffiguranti sante vergini fronteggiano statue di beate di stirpe reale. Ciò che colpisce di più è la ricca decorazione dell’interno, ad unica navata, tipico dell’età della Controriforma. La decorazione degli spazi interni, così come per molte altre chiese palermitane, è costituita da un sontuoso apparato in marmi mischi e tramischi, stucchi ed affreschi che si fondono, in un’unica armonica lettura, con le strutture architettoniche portanti.
Tra gli artisti chiamati a decorare la chiesa:
1744, Filippo Randazzo da Nicosia detto il Monocolo, autore del Trionfo di Santa Caterina affrescato sulla volta della navata e della Gloria delle Domenicane.
1750, Francesco Ferrigno autore del progetto e direttore dei lavori nella realizzazione della cupola.
1751, Vito D’Anna autore del Trionfo dell’Ordine domenicano, affresco che ricopre le superfici all’interno della cupola e delle allegorie dei quattro continenti realizzate nei pennacchi di raccordo ai pilastri.
Nel XVIII secolo, Procopio Serpotta è l’autore degli stucchi decorativi.
Di altissima qualità i riquadri a intarsio marmoreo alla base delle paraste della navata centrale: l’episodio di Giona e la balena e il Sacrificio d’Isacco opere di Giovanni Battista Ragusa, numerosi altorilievi in marmi mischi con episodi tratti dal Vecchio Testamento e medaglioni con le storie di Santa Caterina nelle pareti dell’area presbiteriale.
L’altare maggiore è realizzato in pietre dure, agate grigie e verdi, con ornamenti in rame dorato, su progetto di Andrea Palma.
Sulla parete del transetto destro si trova la Cappella di Santa Caterina d’Alessandria, con nella nicchia la statua marmorea di Santa Caterina d’Alessandria d’Egitto realizzata da Antonello Gagini nel 1534.
Tutte le chiese annesse ai monasteri presentavano la chiesa interna molto più semplice e confinante attraverso il presbiterio con la chiesa esterna, secondo le regole della Controriforma. Dietro di esso vi è la chiesa interna o grande Coro, dove le monache andavano a pregare, non viste, e assistevano alle funzioni della chiesa esterna attraverso le grandi finestre che si affacciano proprio sull’altare.

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Il Sacrificio d’Isacco di G.B. Ragusa

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Santa Caterina d’Alessandria, opera di Antonello Gagini. La palma del martirio è uno degli attributi della santa.

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Il chiostro, con la sua fontana, ha un’elegante struttura fatta di portici con dieci luci o campate per ogni lato, trasformati in luminose verande. Sul piedistallo centrale della fontana è collocata la statua raffigurante San Domenico.

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Il chiostro di Santa Caterina

Il ruolo religioso e caritatevole del gruppo monacale di Santa Caterina è ben noto ai palermitani, soprattutto ai più anziani, che continuano a mantenere vivo il ricordo dei sapori dei dolci tipici siciliani che le suore usavano produrre nei giorni di festa. Nonostante l’abbandono del personale religioso, è mantenuta viva la secolare tradizione della preparazione delle specialità seguendo rigorosamente le ricette tramandate da generazioni di monache pasticcere. Ancora oggi, infatti, nel chiostro c’è una dolceria che offre a profusione le suddette leccornie.

Noi, però, dopo aver dedicato alla chiesa tutto il tempo che meritava, dobbiamo sbrigarci perché abbiamo un appuntamento: il gruppo si deve ritrovare davanti all’albergo per dirigersi a piedi verso la Kalsa, dove ci aspettano i ragazzi di Giocherenda.
Giocherenda è una realtà speciale che nasce dall’idea di un gruppo di giovani che vengono da Gambia, Mali, Burkina Faso, Guinea Conakry e Marocco: molti hanno lasciato i loro paesi a causa di conflitti o dittature, e affrontato un viaggio terribilmente duro in cerca di pace, libertà e di un futuro possibile. Arrivati a Palermo, si sono incontrati sui banchi di scuola e nei centri di accoglienza; alcuni hanno partecipato a un progetto del CIAI (Centro Italiano Aiuti all’Infanzia) che si chiama ragazzi Harraga e hanno voluto mettersi in gioco dando vita a un pool di creativi che si propone di inventare, costruire e animare giochi per liberare la narrazione, recuperare memorie e sperimentare il gusto della condivisione, che nelle loro culture di origine è alla base di tutto.
Il progetto è nato due anni fa e si è inserito bene, secondo quanto raccontano i ragazzi, nella realtà della Kalsa che è già un quartiere fortemente multietnico: c’è stata una buona risposta da parte delle persone.

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Lo spazio in cui ci troviamo (piccolo, a dire il vero, ma tenendo la mascherina e stando attenti alle distanze riusciamo a entrarci tutti) è un negozio di giochi interculturali e solidali, ma anche un laboratorio tessile. Ad accoglierci ci sono soprattutto Saifoudiny (ma Diny è più semplice) e Amadou, che ci presentano i loro giochi e ci raccontano la loro storia. Diny studia relazioni internazionali e Amadou scienze del turismo.
La loro associazione, nata nel giugno 2017, si è trasformata in impresa sociale nel febbraio 2018. I giochi che fanno sono giochi cooperativi, che non sono giochi competitivi ma di condivisione. Il primo gioco che Diny ci presenta si chiama “La ronda dei desideri”: la ronda dei desideri dice che ognuno di noi nella vita ha un desiderio, un obiettivo da raggiungere. Ma come si fa per arrivarci? Facciamo un esperimento. Un “volontario” tra noi esprime un desiderio, in questo caso quello che è forse il primo desiderio di tutti in questo momento: che finisca presto la pandemia. Hai detto niente… A questo punto, per cominciare il gioco bisogna scegliere un oggetto che possa servire per raggiungere questo obiettivo. Facile: il vaccino. Ma non basta: che virtù bisogna avere per far avverare questo desiderio? Rispetto reciproco, è la giusta risposta. E chi sarà il nostro alleato? Seguendo il filo del ragionamento, l’alleato non è altri che il nostro prossimo. E invece qual è l’ostacolo che ci potrebbe impedire di veder realizzato il desiderio? La stupidità umana, altrettanto vero. Ogni giocatore deve esprimere un desiderio. Nella nostra simulazione, Diny vorrebbe viaggiare in tutto il mondo per conoscere diverse culture. Per lui l’oggetto è una valigia, la virtù è conoscere molte lingue, l’alleato una guida che lo aiuti e gli spieghi come muoversi nei vari paesi e l’ostacolo la mancanza di soldi. A questo punto i biglietti con tutti questi elementi, di tutti i giocatori, vengono messi nello stesso sacchetto. Ciascuno poi pesca quattro biglietti, e ovviamente (se si gioca in parecchi) difficilmente pescherà i suoi: si verificherà così uno scambio, che aiuta a capire che quello che per me, per realizzare il mio sogno, è un ostacolo per un altro può essere un vantaggio, e viceversa. Come nella realtà: ognuno di noi fa un piano per raggiungere il suo obiettivo, ma poi il mondo ci può dare qualcosa di inaspettato. E allora cosa facciamo? Dobbiamo tentare di realizzare comunque i nostri desideri con quello che abbiamo a disposizione. È così che si gioca, perché dobbiamo cercare di trasformare quello che la realtà ci mette davanti, o di guardarla con occhi diversi per trovare qualcosa di buono e di utile anche dove sembra che non ci sia. La ronda ti assegna anche un’identità, con delle caratteristiche magari diverse dalle tue. Ci si può trovare, per esempio, a vivere in una giungla in India. Questo ci permette di immedesimarci in qualcun altro, e di capire che la possibilità di realizzare un desiderio può anche dipendere molto da dove e come vivi, da quali sono le tue possibilità in rapporto alle tue aspettative. Tutto questo, sommato con gli oggetti, le virtù, gli alleati e gli ostacoli che… ti ritrovi e che non hai scelto, fa sì che tu possa o no realizzare il tuo desiderio. Il gioco in questo caso è uno spunto di riflessione: il messaggio è trasformare quello che abbiamo, in qualunque posto e in qualunque situazione ci troviamo, sempre con l’obiettivo di coltivare i nostri sogni e realizzare i nostri desideri, al di là degli imprevisti che possiamo trovare sulla nostra strada.
Altri giochi, ancora più semplici, fanno capire il valore dello stare insieme, della condivisione e della solidarietà, tutti valori imprescindibili nelle culture di origine di questi ragazzi: nessuno si salva da solo, mai. E quindi se ci si mette tutti in cerchio e il cerchio è tenuto insieme da un filo di lana, questo semplice esercizio fa capire che se qualcuno esce dal cerchio fa male a tutti gli altri, perché tutti dipendiamo dagli altri.

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Altre riflessioni e chiacchiere in libertà servono comunque per capire come si ragiona nelle culture africane: La prima domanda, quando ci si incontra, non è mai di dove sei o quanti anni hai, queste non sono cose importanti: molte persone non lo sanno nemmeno quanti anni hanno, o lo sanno solo in maniera approssimativa; ma la domanda è come stai. Stare bene, essere in salute sul piano fisico ma non solo, stare bene con sé stessi e con gli altri, è in fondo la sola cosa che conta. Sarebbe bello che tutti lo capissimo, almeno adesso in tempi di pandemia, ma i segnali in questa direzione non sono molti.
Dopo di che ci dedichiamo ovviamente allo shopping: giochi ma non solo, ci sono camicie, foulard, borse… e un sacco di mascherine coloratissime ispirate a motivi tradizionali africani: è ovviamente il gadget del momento, e anch’io ne ho comprate un paio. Questi ragazzi meritano sicuramente di essere sostenuti, lo scopo del nostro viaggio è anche questo.

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https://giocherenda.it/

Per il pranzo ci aspettano da Moltivolti, di nuovo a Ballarò. Il titolo di questo viaggio è “I mille volti di Palermo”, quindi Moltivolti è pienamente nel mood.
Moltivolti è un’impresa sociale nasce nata nel 2014 da un gruppo di 14 persone provenienti da 8 paesi diversi (Senegal, Zambia, Afghanistan, Bangladesh, Francia, Spagna, Gambia e Italia), che animano uno spazio pensato e strutturato per offrire dignità, cittadinanza e valore a partire dalla diversità. Un progetto di comunità intimamente connesso con il quartiere di Ballarò, che cresce in equilibrio con il variopinto mercato popolato da vecchi e da nuovi cittadini. Un quartiere laboratorio di società moderna all’interno del quale vivono 15 diverse comunità e si parlano ben 25 lingue.

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All’interno di Moltivolti si sviluppano 4 diverse aree di interesse tutte collegate e accomunate tra loro da un’unica visione e filosofia di vita: Moltivolti è un ristorante Siculo – Etnico con bar/caffetteria dove è possibile assaporare culture diverse, uno spazio in cui il cibo favorisce l’incontro e la relazione. Moltivolti gestisce uno spazio di Co-Working composto da 18 postazioni di lavoro indipendenti, pensato principalmente come uno spazio condiviso da associazioni del terzo settore, singoli operatori sociali, volontari e gruppi informali che intendono sviluppare progetti di natura sociale, culturale o artistica. Moltivolti ha da poco dato vita a un’associazione no-profit che si occupa di supportare e mettere a sistema le numerose attività sociali e le tante opportunità di crescita e interazione che nascono e si sviluppano tra i tantissimi giovani (autoctoni, seconde generazioni, rifugiati e richiedenti asilo, ecc.) che frequentano ogni giorno gli spazi dell’impresa sociale ed il quartiere multietnico di Ballarò. Moltivolti da anni organizza percorsi di turismo responsabile in Tanzania, Senegal, Nepal, Marocco, Turchia e… Sicilia, promuovendo l’educazione allo sviluppo come strumento per la creazione di occasioni di arricchimento culturale. Scambio sociale, valorizzazione, tutela delle risorse del territorio e comprensione di patrimoni tradizionali differenti, al fine di superare pregiudizi e favorire l’interazione tra i popoli.

https://moltivolti.org/

Be’, serve dire di più? È il posto per noi. Dove, tra l’altro, possiamo gustare un ottimo cous-cous, i brik tunisini (triangoli di pasta brik, simile alla pasta fillo, riempiti con patate, uova e prezzemolo) e un piatto afgano (il cuoco è afgano, quindi come non approfittarne?) a base di riso e carne di manzo super-speziata.

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Una volta rifocillati possiamo ripartire. Il pomeriggio (o quel che ne resta, in Sicilia si pranza tardi e il nostro pranzo si è un po’ prolungato) ci porterà alla scoperta della Kalsa, un quartiere antico e anch’esso dai mille volti. Il nome, manco a dirlo, è arabo e deriva da al Khalisa, che significa la pura o l’eletta. Nasce in periodo arabo ed è il primo quartiere esterno rispetto alle mura più antiche che si trovavano nella zona più a ovest; questo nuovo quartiere venne costruito e fortificato in breve tempo per creare un altro polo difensivo alla città distaccato dal vecchio centro dove convivevano troppi dissapori e mire secessionistiche, scegliendo come ubicazione l’area sud-orientale del porto che si andava espandendo. Al suo interno vi era la cittadella fortificata dell’emiro.
Durante la successiva dominazione normanna vennero abbattute le mura arabe lasciando solo le mura esterne della città per favorire la comunicazione tra le aree e probabilmente perché non era più necessaria una tale protezione.
In periodo medievale la zona crebbe in maniera disorganica e casuale, infatti gli orti e i giardini venivano occupati per costruirvi all’interno, e così il quartiere, un tempo separato, si unì dapprima al quartiere ebraico, mentre successivamente l’espansione lo portò a congiungersi con la cittadella fortificata.
Oggi i muri del quartiere sono ravvivati da varie opere di street art.

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Street art alla Kalsa: il murale è degli artisti palermitani Rosk e Loste

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Noi vorremmo vedere prima di tutto Palazzo Abatellis, che ospita la Galleria Regionale della Sicilia, però purtroppo è chiuso. In tempi pandemici è difficile capire quali siano i veri orari e giorni d’apertura, tutto cambia molto rapidamente. Allora “ripieghiamo”, per così dire, ma non è un vero ripiego, sulla chiesa dello Spasimo.
La chiesa dello Spasimo nasce negli ultimi 10 anni dell’epoca aragonese, regnante Ferdinando II, contrassegnati dalla ricerca del bello e dall’esplosione della corrente artistica definita rinascimento siciliano. Attorno al 1506 il giureconsulto palermitano Jacopo de Basilicò promuove la costruzione dell’aggregato monumentale rispettando e ponendo in essere le volontà testamentarie della defunta consorte Eulalia Rosolmini, figura particolarmente devota al dolore (Spasimo) della “Madonna che soffre dinanzi al Cristo che cade sotto il peso della croce sulla via del Calvario”; pertanto il mecenate dona del terreno ai religiosi benedettini della Congregazione di Santa Maria di Monte Oliveto per edificare una chiesa e un monastero, opere da lui patrocinate e finanziate.
I lavori iniziano nel 1509, approvati con bolla pontificia di Papa Giulio II. Concluse le attività riguardanti l’edificazione della chiesa, rimangono incomplete quelle del monastero, causa insufficienza dei fondi. Un’altra ben più temibile difficoltà grava sul proseguimento dei lavori: infatti, sotto la crescente minaccia dell’invasione turca e con le continue rappresaglie di bande di corsari, alcuni anni più tardi si rende necessario il consolidamento dei sistemi difensivi della città.
Nel 1518 l’imponente edificio, di grande importanza a quel tempo per l’intera comunità palermitana, sempre per volontà del promotore e patrocinatore si era arricchito, tra gli altri, di un capolavoro d’inestimabile valore denominato Andata al Calvario e universalmente conosciuto come Spasimo di Sicilia, nome che influenzerà il titolo e la denominazione della chiesa. L’opera di Raffaello Sanzio raffigura appunto lo sgomento di Maria dinanzi al Cristo caduto sotto il peso della croce. Il capolavoro oggi è custodito al Museo del Prado di Madrid ma in tutta la Sicilia si contano almeno venti riproduzioni dello Spasimo, molte delle quali realizzate nel XVI secolo, altre in epoche successive. Una di queste copie si trova proprio qui nel complesso originario.
Nel 1569 il Senato di Palermo acquista il complesso e i monaci vengono trasferiti nella chiesa di Santo Spirito dell’ordine cistercense ricevendo a titolo di risarcimento la somma di 10.000 scudi. Nel 1573 ha luogo il trasloco della congregazione, identica sorte seguiranno il dipinto e il monumentale aggregato marmoreo. Nel 1661 il quadro è ceduto a Filippo IV di Spagna (Filippo III di Sicilia) e l’originale viene sostituito con una copia.
Nel 1582 la chiesa è adibita a sede di spettacoli pubblici, una specie di primo esempio di “teatro stabile” in Italia; ma l’epidemia di peste del 1624 ne rende necessario l’utilizzo come lazzaretto per il ricovero degli ammalati. Terminata l’emergenza infettiva, gli ambienti vengono adibiti a granaio e in seguito a magazzini. A metà del Settecento crolla la volta della navata centrale che non sarà mai più ricostruita.
Dal 1886 al 1985, la struttura è trasformata in ospizio per i poveri e nosocomio: l’architettura viene in gran parte sconvolta per poterne ricavare gli ambienti dell’Ospedale Umberto I.
Nel secondo dopoguerra il sito è ridotto a una discarica e solo nel 1985, grazie alla volontà dei cittadini e delle Pubbliche Amministrazioni, iniziano i lavori di recupero delle strutture fatiscenti. Inaugurato il 25 luglio 1995 con il concerto “Spasimo” di Giovanni Sollima, il teatro all’aperto ha ospitato negli anni spettacoli, mostre, concerti e varie manifestazioni culturali, in un contesto ambientale affascinante e suggestivo. Oggi invece c’è… un matrimonio.
Nel 1986 l’altare marmoreo del Gagini, dato ormai per disperso da tutti gli studiosi, viene ritrovato smembrato in seguito alle ricerche di Maria Antonietta Spadaro, che ne aveva avviato il censimento dei frammenti, e nel 1997 tutte le parti ritrovate vengono riportate allo Spasimo, con l’intento di rimontarlo nella collocazione originaria. Nel marzo 2007 il comune dà il via libera ai lavori di restauro e solo dopo 13 anni, il 9 luglio 2020, si inaugura il riassemblaggio dell’altare, che ora ospita appunto una riproduzione del dipinto di Raffaello.

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Lo Spasimo di Raffaello

La meta successiva, dopo una passeggiata sul lungomare, dovrebbe essere continuare questa passeggiata sulle mura dette “delle Cattive”, a ridosso del Foro Italico.
Nel 1823 venne costruita a Palermo, sopra le mura cinquecentesche della città, una terrazza pavimentata ed ornata da panche. Essendo sopraelevata di circa cinque metri rispetto al piano della strada offriva maggiore riservatezza rispetto alla passeggiata su strada ed una vista panoramica particolarmente apprezzata dalle vedove, in siciliano chiamate “cattive”(dal latino captivae = prigioniere), le quali, prigioniere del lutto, vi potevano passeggiare senza scandalizzare la cittadinanza e senza disubbidire alla tradizione che le voleva vestite di nero e chiuse in casa, escluse dalla vita di società. Da qui il nome “Mura delle cattive”.

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Però anche stavolta ci va male. Arriviamo troppo tardi ed è chiuso. Non resta che dare uno sguardo a Porta Felice, l’unica porta di Palermo senza… tetto (secondo la diceria popolare era stata fatta così per i cornuti, perché potessero passare anche loro senza paura) e dirigerci verso Palazzo Butera, dove abbiamo un altro appuntamento, che è ormai quello con l’aperitivo.

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Porta Felice

Palazzo Butera si trova nell’antica strada principale della Kalsa ed è stato acquistato da Massimo e Francesca Valsecchi nel 2016. I nuovi proprietari, che sono collezionisti d’arte, hanno finanziato un restauro integrale del palazzo, strutturale e artistico, e un progetto architettonico e museografico, con l’intenzione di aprire il bene monumentale alla fruizione pubblica.
Al termine del restauro, il palazzo diventerà un laboratorio aperto alla città, che utilizzerà la storia, la cultura, la scienza e l’arte come catalizzatori di sviluppo sociale. Al piano terra, ci sarà una biblioteca di consultazione, spazi per le esposizioni temporanee e per le attività didattiche rivolte agli studenti delle scuole e delle università. Il primo piano rimarrà di fruizione privata e verrà sviluppato un progetto di casa-museo, mentre il secondo piano nobile sarà aperto al pubblico. Artisti, curatori e personalità della cultura potranno essere ospitati nella foresteria, dove potranno lavorare a progetti di ricerca per le mostre e le attività che si tengono nel palazzo.
Il 17 giugno 2018, in occasione di “Manifesta” 12, la biennale itinerante di arte contemporanea, i primi ambienti di Palazzo Butera sono stati aperti al pubblico. Nel primo anno e mezzo di apertura, il Palazzo è stato visitato da più di 30.000 persone.
Adesso, però, in tempi di coronavirus, il solo spazio aperto all’interno del palazzo è MadoniEAT, che per fortuna stasera è quello che interessa a noi. MadoniEAT è la vetrina delle Madonie a Palermo. Una sfida, un sogno, un progetto quello dei ragazzi di MadoniEAT (ragazzi che tra l’altro, abbiamo scoperto, hanno trascorsi “milanesi”): vivere un viaggio dove si incontrano gusto e tradizione, ma anche scegliere di sostenere un territorio attraverso i suoi prodotti migliori. Per questo hanno scelto di tornare in Sicilia.

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Noi ci gustiamo, come aperitivo, un buon bicchiere di vino delle Madonie, accompagnato da sfincione e pane ai semi di sesamo con ricotta fresca. Lo sfincione (o sfinciuni) è uno dei più tipici street food palermitani (e abbiamo già detto che Palermo è una delle capitali dello street food). È in pratica un pane pizza morbido e lievitato con sopra una salsa a base di pomodoro, cipolla, acciughe, origano e pezzetti di formaggio tipico siciliano (chiamato caciocavallo ragusano).
Un aperitivo che per noi, considerato quanto abbiamo mangiato a pranzo, vale una cena, e quindi dopo non ci rimane che spostarci verso i Quattro Canti e nello specifico verso la chiesa di Santa Caterina. L’abbiamo già vista stamattina… al naturale, ma ora la vedremo in un’altra versione, usata come sfondo di uno spettacolo di luci, colori e suoni che si chiama “videomapping”. Il videomapping “Exstasis” è il racconto di una trasformazione dell’anima, di un movimento che si fa corpo tra i giochi di pixel e le geometrie cangianti. I video artisti hanno ripercorso i cinque momenti del cammino estatico: risveglio, purificazione o ascesi, illuminazione, notte oscura dell’anima, unione. Io ve ne do un piccolo assaggio, giusto il finale: decidete voi se vi piace.

Dopo di che, visto che è l’ultima serata che passiamo qui ed è anche l’ultima serata di Palermo prima del coprifuoco, che da domani comincerà anche qui, decidiamo, con un piccolo gruppo guidato da Simona, di concluderla degnamente facendoci una birra all’Antica Focacceria di San Francesco. Per dirla tutta, prima abbiamo provato un altro posto, ma niente da fare: anche qui chiuso. È proprio una giornata così… ma l’Antica Focacceria merita sempre una visita se si passa da Palermo, per vari motivi. Io ne ho già fatta più di una qui, nel mio passato soggiorno palermitano. Un motivo è che per molti è il tempio del pane con la milza (pani c’a meusa), forse il più tipico e simbolico cibo di strada palermitano e solo palermitano. La focaccia a cui si riferisce il nome, infatti, non è altro che quella utilizzata per il pane con la milza. So già che se qualche palermitano mi sta leggendo, probabilmente per lui il tempio, il vero “posto” del pani c’a meusa è un altro: io penso che ogni palermitano abbia il suo. E allora per salvarmi, be’… diciamo che questo è il mio. Anche in omaggio alla lunga storia di attivismo antimafia dei proprietari dell’Antica Focacceria. Tra i primi ad aderire alla campagna “Addio Pizzo”, hanno anche fondato un’associazione antiracket che si chiama “Libero Futuro”. Da anni ormai, a sostegno del riutilizzo socialmente utile dei terreni confiscati alle mafie, hanno scelto di acquistare molte materie prime dalle cooperative di “Libera terra”, che fanno dei beni confiscati in tutta Italia una risorsa per lo sviluppo dell’intero circuito socio-economico, attraverso il coinvolgimento degli agricoltori e di diversi altri settori produttivi del territorio. Ed ecco un altro motivo. Senza contare che l’Antica Focacceria si trova proprio davanti alla chiesa di San Francesco, anch’essa alla Kalsa, ed è davvero antica: ha aperto nel 1834. I suoi interni sono bellissimi.

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E allora, visto che siamo al momento personale, vi voglio anche dire come l’ho conosciuta: per capirlo basta che ascoltiate l’attacco di questa canzone dei Modena City Ramblers di tanti anni fa, che si intitola “La banda del sogno interrotto” e racconta un’altra storia molto siciliana…

Modena City Ramblers – La banda del sogno interrotto

E con questo vi saluto, alla prossima (e ultima) puntata.

(TO BE CONTINUED…)

Grazie ancora a ViaggieMiraggi, a Radio Popolare, alla cooperativa Terradamare, a Giocherenda, Moltivolti e al CIAI – Centro Italiano Aiuti all’Infanzia. E grazie a Simona per il video della nostra performance canora.