Quattro giorni a Palermo con Radio Popolare e Viaggiemiraggi
Domenica 25 ottobre 2020
Oggi è il nostro ultimo giorno a Palermo. Abbiamo vissuto la città, per quanto è possibile fare in questi giorni di pandemia, abbiamo avuto tanti incontri entusiasmanti, abbiamo visto cos’è Palermo oggi. Adesso è il momento di tuffarci nella storia di Palermo e di farci stupire dalle sue più grandi meraviglie, di restare a bocca aperta davanti ai suoi tesori artistici. Per farlo ci farà da guida Francesca, anche lei della cooperativa Terradamare (e non si può proprio fare a meno di amarla, questa terra).
Ripartiamo da quello che è il centro più centro della città, e per questi quattro giorni è stato anche il centro del nostro piccolo mondo: i Quattro Canti.
Da qui, lo sappiamo, si dipartono i quattro quartieri storici, detti anche mandamenti. Questa parola suona sinistramente familiare a chi conosce un po’ di storia della mafia, ma in origine i mandamenti non erano altro che questo, le zone in cui Palermo si divide, proprio a partire da qui.
Ai Quattro Canti, oltre alle sante, ci sono anche le quattro stagioni, rappresentate anch’esse da statue: la primavera con la cornucopia, frutta e fiori, l’estate col grano, l’autunno con la vendemmia e l’inverno con la fiaccola. Non sono solo le stagioni della natura, ma anche le stagioni della vita: infanzia, giovinezza, età matura, vecchiaia. I palazzi che delimitano la piazza, tolta la chiesa di San Giuseppe dei Teatini, sono dimore private, oggi piuttosto decadenti. Palermo subì pesanti bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale, il più pesante dei quali fu quello del 9 maggio 1943; e gli effetti, quasi 80 anni dopo, non sono ancora stati cancellati. I restauri, almeno per quanto riguarda i palazzi dei Quattro Canti, vanno molto a rilento anche per colpa delle liti tra gli eredi delle famiglie nobili, che da decenni non riescono a mettersi d’accordo.
Palermo ha 360 chiese, e tantissime meriterebbero una visita. Ci sono gioielli barocchi relativamente poco conosciuti come gli oratori del Serpotta, che ho avuto occasione di visitare durante il mio precedente soggiorno palermitano; noi abbiamo già visto Santa Caterina; ma oggi non si può che partire dalla cattedrale, che nel suo sovrapporsi di stili rappresenta plasticamente la storia della città.
Camminando verso la cattedrale, Francesca ci parla di alcuni dei simboli della città, spesso rappresentati nelle ceramiche: la pigna, che da sempre e in diverse civiltà ha racchiuso in sé i significati simbolici di forza vitale, immortalità e divinità, legati all’albero che la genera, insieme a quelli di fecondità e forza rigeneratrice per i semi che contiene. E poi la testa di moro, o di turco: questa nasce da una leggenda palermitana. Si narra che intorno all’anno 1100, periodo della dominazione araba, alla Kalsa vivesse una bellissima fanciulla. La ragazza trascorreva le sue giornate quasi esclusivamente in casa, dedicandosi alla cura delle piante che ornavano il suo balcone. Un giorno, passando per la Kalsa, un giovane moro vide la bella ragazza intenta ad annaffiare i suoi fiori, e subito se ne innamorò. Decise di volerla tutta per sé e, senza indugio, entrò in casa della ragazza per dichiararle il suo amore. La fanciulla, colpita da quell’ardito e intenso sentimento, ricambiò l’amore del giovane, ma quando seppe che questi l’avrebbe presto lasciata per tornare nelle sue terre in Oriente, dove l’attendevano moglie e figli, approfittò della notte e lo uccise mentre giaceva addormentato. La ragazza gli tagliò la testa, e con questa fece un vaso dove piantò una pianta di basilico, che mise sul balcone, affinché l’uomo rimanesse per sempre con lei. Il basilico crebbe rigoglioso grazie alle lacrime che la fanciulla vi versava giornalmente, destando però l’invidia di tutti gli abitanti del quartiere che, per non essere da meno, si fecero costruire dei vasi di terracotta a forma di testa di moro.
Un altro simbolo di Palermo, nel regno vegetale, è il fiore della pomelia. Originaria dei paesi tropicali e dell’America centrale, la pomelia o plumeria è arrivata in Sicilia nel Settecento grazie agli Inglesi. La pomelia palermitana è ancora oggi conservata nell’Orto Botanico. Secondo la tradizione la pomelia viene offerta alla sposa quando va ad abitare in una nuova casa. In questo modo si augura fertilità e prosperità. Per questo a Palermo questi fiori così amati vengono usati per la realizzazione dei bouquet delle spose.

Fiori di pomelia

Statua di Carlo V
La cattedrale metropolitana di Palermo è dedicata alla Santa Vergine Maria Assunta in Cielo. La prima chiesa fu costruita in epoca romana nell’attuale area a poche centinaia di metri dal primitivo insediamento fenicio – punico dove adesso sorge il Palazzo dei Normanni (che fu anche Alcassar, la dimora degli emiri), lo stesso luogo deputato durante il I, II e III secolo al sacrificio dei primi martiri palermitani oggetto di persecuzioni cristiane operate da Decio e Diocleziano. L’edificio è menzionato in una bolla pontificia di Papa Leone Magno e in una lettera al clero siciliano del 21 ottobre 447.
Nel 535 Belisario, alla testa delle truppe bizantine, conquista Palermo. Del luogo di culto edificato intorno al IV secolo e in seguito distrutto dai Vandali non sono pervenute testimonianze riportate alla luce. Il secondo tempio d’epoca bizantina dedicato alla Vergine Maria Assunta è edificato sulle rovine del precedente nel 604; di questo sono rimaste la cripta e la pianta basilicale a forma quadrata.
Nell’831 è la volta dei Saraceni, che modificano le chiese ed edificano in città ben trecento moschee. Quella più grande detta “Gami” o «Grande Moschea del Venerdì» è il riadattamento della cattedrale bizantina.
Il ritorno alla sovranità di matrice cristiana e cattolica avviene con l’avvento dei Normanni grazie al contributo di Ruggero d’Altavilla e del fratello Roberto il Guiscardo. Per celebrare la conquista territoriale dell’isola, la casata degli Altavilla promuove e favorisce la costruzione di splendide e monumentali cattedrali in tutte le località teatro delle battaglie più cruente, riservando a Palermo la costruzione più laboriosa, ma altrettanto fastosa. La moschea è riadattata rapidamente al culto cristiano, affidata ancora per poco tempo al vescovo Nicodemo, di tradizione greco – ortodossa, molto amato dal popolo. È ipotizzabile che all’esterno della moschea non siano stati apportati grossi cambiamenti col passaggio a chiesa cristiana, eccezion fatta per la trasformazione del minareto in campanile.
Il 4 febbraio 1169 il terremoto detto di Sant’Agata danneggia gravemente la sommità della torre campanaria e la parte superiore della facciata che crollano devastandosi vicendevolmente. Interpretato come punizione divina per causa della corruzione dilagante, l’evento costituisce il pretesto per una radicale riedificazione della chiesa, progetto che prevede la costruzione di un edificio all’altezza dello splendore del regno. Del primitivo impianto gregoriano perviene solo la parte inglobata nell’odierna Cappella dell’Incoronazione.
Sotto le dominazioni di normanni e svevi si assiste in città alla pacifica convivenza di un crogiolo di culture rappresentate dalle religioni monoteiste del mondo allora conosciuto: cristiani, musulmani ed ebrei. Palermo è capitale del Sacro Romano Impero con Federico II. Per quasi due secoli le arti e l’architettura sono permeate da canoni stilistici tipici del Medio Oriente amalgamati con le concezioni nordiche e germaniche. È il cosiddetto periodo arabo-normanno, di cui la cattedrale è forse la testimonianza più significativa.

La cattedrale
La chiesa è modificata ancora più volte, ma lo sviluppo in pianta della nuova cattedrale è oggetto sempre dei forti influssi religioso – architettonici precedenti. Ripetutamente rimaneggiata e riedificata per svariati eventi, risente anche di interventi dovuti a fenomeni sismici, soprattutto nell’alta torre campanaria slanciata dinanzi al prospetto occidentale.
In epoca aragonese, i decenni a cavallo del XV secolo sono caratterizzati dalla massima espressione artistica nell’isola nota come Rinascimento siciliano. Geni come Domenico Gagini, Antonello Gagini, Francesco Laurana, Orazio Alfani (detto il Perugino), Giovanni da Maiano, le relative scuole e botteghe lasciano capolavori senza eguali nell’intero palcoscenico artistico palermitano e siciliano.
La città fu sempre sede di pomposi eventi incentrati su temi religiosi che prevedevano coreografici cortei processionali e la partecipazione delle più alte cariche civili e religiose del regno, manifestazioni che contemplavano pause di ristoro in padiglioni appositamente eretti e molto spesso annoveravano la partecipazione del monarca o dell’imperatore. Fra essi si annoverano gli Atti di fede o Auto da Fé celebrati dal Tribunale del Santo Uffizio di Sicilia.
L’edificio, già felice espressione di molteplici stili, subisce nel corso dei secoli vari rimaneggiamenti. Il barocco siciliano s’innesta con arricchimenti tipici della cultura decorativa dell’epoca. Tra il 1709 e il 1710 l’arcivescovo Giuseppe Gash finanzia i lavori per la trasformazione dell’antico tetto ligneo in copertura a volta in pietra.
Il più poderoso e invasivo dei restauri è effettuato alla fine del Settecento, quando in occasione del consolidamento strutturale si rimodella radicalmente l’interno su progetto dell’architetto fiorentino Ferdinando Fuga.
I rifacimenti, eseguiti successivamente, sono in realtà molto più radicali dei progetti. Il restauro interviene a cambiare l’aspetto originario del complesso, dotando la chiesa della caratteristica ma discordante cupola, eseguita secondo i disegni del Fuga.
Oggi quello che forse caratterizza di più la cattedrale è il portico a tre arcate, capolavoro ispirato all’architettura catalana che richiese circa 200 anni per la sua realizzazione.
L’interno non è altrettanto bello, o meglio è insolitamente (per la Sicilia) sobrio, per niente sfarzoso. C’è una meridiana pavimentale con i segni zodiacali, che scandiscono ovviamente i mesi dell’anno. Lo gnomone, ovvero il piccolo foro da cui penetra il raggio del sole, crea un cerchio perfetto all’altezza del segno corrispondente all’epoca dell’anno. E c’è la cappella di Santa Rosalia, la Santuzza, tutta ricoperta d’argento, opera di mastri argentieri siciliani. Rosalia non fu una martire: fu considerata pazza perché all’età di tredici anni venne promessa in sposa a un nobile principe, lei figlia di un importante proprietario terriero dell’epoca normanna (XII sec.), imparentato con Guglielmo II, ma rifiutò per dedicare la vita a Cristo e si rifugiò nelle terre del padre, in quella che oggi è la provincia di Agrigento. Le terre del padre vennero espropriate e lei fu costretta a tornare a Palermo, dove trovò un nuovo rifugio sul monte Pellegrino, dove oggi c’è il suo santuario. Morì poco più che trentenne e quattro secoli dopo, nella Palermo infestata dalla peste, apparve in sogno a un cacciatore e a una ragazza, dando loro le indicazioni per trovare le sue ossa. Le ossa ritrovate furono portate in processione e si dice che avvenne il miracolo: la peste svanì. Le reliquie si trovano oggi nella cappella, all’interno di una preziosa urna d’argento.

L’urna argentea con le reliquie di Santa Rosalia
Il nostro percorso arabo-normanno continua con la chiesa di San Giovanni degli Eremiti.
Il nome di questa chiesa ha una curiosa origine. Nel 1132, quando la chiesa precedentemente distrutta dai saraceni e verosimilmente sostituita con una moschea venne riedificata ad opera di re Ruggero II, il primitivo monastero di Sant’Ermete era dedicato a San Giovanni Apostolo ed Evangelista. Adiacente al monastero sorgeva la chiesa di San Mercurio (in greco Hermes); per la vita eremitica dei monaci pertanto definiti romiti, per assonanza o storpiatura o contaminazione verbale col termine Ermete, il luogo di culto ricostruito divenne noto come monastero di San Giovanni degli Eremiti.
La chiesa è costruita secondo i canoni dell’architettura siculo-normanna; si tratta di una chiesa romanica ma che esternamente ricorda edifici orientali. Il richiamo all’Oriente viene ancor più enfatizzato dalle cupole di colore rosso acceso, restaurate nell’Ottocento dell’architetto Giuseppe Patricolo e forse simili all’originale.
La chiesa è realizzata a croce e divisa in campate quadrate su ciascuna delle quali poggia una semisfera. Il presbiterio, terminante in nicchia, è sormontato da una cupola, come quella dei due corpi quadrangolari che la fiancheggiano e di cui quello di sinistra si eleva a campanile. Il chiostro, abbellito da un lussureggiante giardino, è la parte meglio conservata del primitivo monastero; spiccano per bellezza e leggerezza le colonnine con capitelli a foglie d’acanto che reggono archi ogivali a doppia ghiera. Vi si trova inoltre una cisterna araba. L’interno è privo di qualsiasi tipo di decorazione, come erano le chiese fortificate dei normanni.
Ma c’è di più: il posto in cui ci troviamo – ci racconta Francesca – rappresenta esattamente il luogo di fondazione della città. i fenici, quando arrivarono dall’attuale Libano nell’VIII secolo a.C., si insediarono in questo nucleo urbano. Il primo nome di Palermo fu Zyz, che significa fiore. Un fiore all’occhiello del mediterraneo. I fenici, che avevano un alfabeto di tipo simbolico, chiamarono così la nuova città, che più tardi in epoca araba diventò al Aziz, ovvero la splendente (ancora oggi il quartiere della Zisa ha mantenuto l’assonanza col vecchio nome). I fenici, si sa, erano grandi navigatori e fondarono altre città: Solunto e Mozia, sull’omonima isola. Ai fenici seguirono i greci, dal VII al V secolo a.C., che si unirono ai fenici e chiamarono Palermo Panormos (tutto porto). Questa è la cosiddetta prima ondata di grecità in Sicilia. Dopo i greci, i romani, che portarono invece la prima ondata di latinità. La Sicilia fu conquistata nel 241 a.C., durante la Prima Guerra Punica. Diventò provincia romana e cominciò a esportare grano in tutto il mondo allora conosciuto, diventando il granaio di Roma. Poi i vandali, i bizantini (seconda ondata di grecità) maestri del mosaico, gli arabi, i normanni, gli svevi, gli angioini cacciati poi con la rivolta dei Vespri Siciliani del 1282, e gli aragonesi con i quali cominciò il periodo più cruento. Sotto la dominazione spagnola Palermo fu sede di importanti tribunali della Santa Inquisizione. Poi i Borbone, il Regno delle Due Sicilie… e siamo quasi ai giorni nostri, o almeno diciamo che da qui bene o male la sappiamo. A Palermo si trovano dolci arabi, il babà legato alla cultura borbonica, la torta Savoia. Francesca si autodefinisce “una lasagna”, fatta di molti strati sovrapposti, ricca e condita con di tutto un po’. Suo nonno era biondo con gli occhi celesti, suo padre – assicura – sembra un tunisino a tutti gli effetti. Il risultato è lei, che ha la pelle chiara e i capelli scuri, come molte ragazze siciliane.
Ma torniamo al percorso arabo-normanno: gli arabi arrivano in Sicilia nell’827, nell’831 conquistano Palermo e la chiamano Balarm. Gli arabi sono esperti in matematica, in geometria, nell’irrigazione e nelle tecniche agricole, ma soprattutto sono grandi architetti. Agli arabi seguono i normanni, il popolo del nord. Di origine scandinava, si spostano però in Inghilterra e in Francia (Normandia), ed è da qui che arrivano in Sicilia. I normanni sono in pratica dei vichinghi civilizzati, e quindi sono appassionati di caccia, pesca e falconeria, ma iniziano a entrare nel tessuto sociale siciliano attraverso la diffusione del cristianesimo. Arrivano infatti come legati apostolici, col potere cioè di eleggere i vescovi senza il consenso del papa. Accentrano quindi nelle loro mani il potere spirituale e quello temporale. La diffusione della cristianità passa naturalmente dalla costruzione delle chiese, che i normanni non sanno fare. Ma qui trovano gli arabi, che sono grandi architetti, ed ecco che l’unione è fatta: nasce lo stile arabo-normanno. Le chiese sono commissionate dai cattolici normanni ma costruite da mani arabe, musulmane. Ma perché gli arabi si piegarono al volere dei normanni? Be’, in un contesto così culturalmente variegato (allora in Sicilia si parlavano quattro lingue: arabo, latino, greco ed ebraico) i normanni riuscirono ad inserirsi essendo di natura battagliera ma anche, all’occorrenza, diplomatica. Fu con la diplomazia che convinsero gli arabi che si poteva convivere e che, lavorando per loro, ne avrebbero tratto vantaggio.
Questo luogo fu riconvertito al culto cristiano con la costruzione di questa chiesa da Ruggero II, il primo re cattolico di Sicilia. Quando i normanni arrivarono in Sicilia, con Ruggero I (o Ruggero il Gran Conte) e il fratello Roberto il Guiscardo, entrarono a Palermo dalla Bab al Futub (Porta della Vittoria), alla Kalsa, ora inglobata nell’Oratorio dei Bianchi. A Ruggero I seguì Ruggero II, che fu appunto il primo a proclamarsi re, poi Guglielmo I e Guglielmo II. Nella seconda metà del XII secolo Guglielmo II, detto Guglielmo il Buono, morì senza figli. Lui aveva sposato Giovanna Plantageneto d’Inghilterra, figlia di Riccardo Cuor di Leone. La reggenza passò al figlio maschio della figlia femmina di Ruggero II (Costanza d’Altavilla), che era niente meno che Federico II di Svevia, lo “Stupor mundi”. Federico II era nipote di Federico Barbarossa dalla parte di padre, ma era anche nipote di Ruggero II, e quindi normanno, da parte di madre.

San Giovani degli Eremiti
Il nostro percorso arabo-normanno, a questo punto, non può che continuare con quella che fu dal punto di vista artistico la più grande realizzazione di Ruggero II, e che è probabilmente il maggior tesoro artistico di Palermo: la Cappella Palatina di Palazzo dei Normanni.
Ruggero, proprio in quanto primo sovrano cattolico di Sicilia, volle farsi costruire questa cappella per sé all’interno del palazzo reale. Fu incoronato la notte di Natale del 1130, come Carlo Magno che più di tre secoli prima aveva scelto per la sua incoronazione la notte di Natale dell’800. E, per non essere da meno di Carlo Magno che si fece costruire la Cappella Palatina di Aquisgrana, si fece costruire questa cappella a Palermo.

Palazzo dei Normanni
Sulla parete del vestibolo, proprio sopra l’ingresso alla cappella, è inserito un mosaico raffigurante il cosiddetto Genio di Palermo, in panni regali e sembianze d’uomo maturo, ritratto con il cane, la serpe e l’aquila, allegorie rispettivamente della fedeltà, dell’invasore da schiacciare e della libertà intesa come personificazione della città di Palermo e del regno ad essa associato.

Il Genio di Palermo
Entrando, la prima cosa che si nota è un leggio. Secondo una teoria – racconta Francesca – dove oggi si trova questo leggio era posizionato il trono imperiale. In questo modo, chi guardava il re dava le spalle all’altare e, al contrario, guardando l’altare e il Cristo Pantocratore sul lato opposto si voltavano le spalle al re; questo non sarebbe stato possibile, e quindi si ritiene probabile che inizialmente la parte del trono fosse una “aula regis”, una sala delle udienze separata dalla cappella.
La cappella è un grande mix di bizantino, arabo e normanno: I mosaici a carattere religioso sono in stile tipicamente bizantino, i motivi geometrici sono islamici, la struttura è quella tipica di una chiesa cattolica. Ma all’interno della cappella, ed è uno dei motivi per cui si viene qui, c’è qualcosa di veramente unico: i soffitti intagliati in legno, realizzati da maestri di scuola fatimide e iranica, espressione artistica tipica degli edifici arabi dell’Ifriqiya (odierna Tunisia) e della Persia. Le decorazioni a muqarnas dei cassoni lignei, dipinte con immagini rare e iscrizioni cufiche, presentano ornamenti fitoformi e zoomorfi, uccelli, animali fantastici e mitologici, tra cui figure umane, quest’ultime espressamente vietate dalla tradizione musulmana altrove, qui immortalate in scene di caccia, di guerra e d’amore; ci sono suonatori, danzatori e danzatrici del ventre, bevitori di vino, giocatori di scacchi (e tutto questo in una chiesa). Sono ben 750 immagini indipendenti l’una dall’altra. È una rarissima eccezione, unico caso presente in Sicilia d’arte islamica permeata dal gusto e dalle concezioni nordiche: tra le rosette in legno pitture con le raffigurazioni dello stesso sovrano committente e di eminenti dignitari o rappresentanti in vesti orientali, spesso seduti a gambe incrociate nell’atto di suonare chitarre e altri strumenti. Si pensava che il legno fosse cedro del Libano, ma si è da poco scoperto che in realtà si tratta di un legno locale, precisamente abete nebrodensis, dei Nebrodi.
Il Cristo Pantocratore della calotta dell’abside tiene nella mano sinistra il Vangelo aperto al versetto: “Io sono la luce del mondo, chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”, scritto in greco sulla pagina sinistra e in latino sulla destra. Nel registro inferiore o catino absidale, l’iconostasi presenta la Vergine in Trono, a sinistra Pietro Apostolo e Maria Maddalena, sulla destra Giovanni il Battista e Giacomo Apostolo. La Vergine è una donna comune che in quanto madre di Cristo diventa regina.
Questa chiesa è dedicata ai Santi Pietro e Paolo, fondatori della Chiesa Romana d’Occidente. Infatti nella controfacciata, quella del trono, abbiamo Cristo Pantocratore, in trono, tra gli apostoli Pietro e Paolo ovvero un altro Cristo Pantocratore con aureola a croce greca, abbigliamento regale, in atto benedicente con la mano destra mentre la sinistra tiene chiuso il Vangelo, ritratto fra San Pietro e San Paolo apostoli e gli arcangeli Michele e Gabriele. Anche sul lato opposto, ai lati dell’altare, ci aspetteremmo di trovare Pietro e Paolo. Paolo c’è, e ha anche – sottolinea Francesca – una specie di tirabaci che fa simpatia. Ma quello a sinistra, che potrebbe sembrare Pietro, in realtà è Sant’Andrea. Perché questo? Perché in un clima di tolleranza si è voluto dare pari dignità alla Chiesa Romana d’Occidente e a quella d’Oriente, di cui Sant’Andrea è protettore. Si riconosce perché, nonostante la barba sia simile a quella di Pietro, è presente una croce greca.

L’abside

San Paolo e il suo tirabaci

Sant’Andrea
Al centro della cupola ancora il Cristo Pantocratore, raffigurato in atto benedicente con la mano destra, mentre con la sinistra tiene il libro dei Vangeli chiuso; è, con l’equivalente immagine absidale, tra i mosaici di datazione più antica, risalenti alla costruzione originaria. L’aureola a croce greca e le vesti ricordano gli abiti cerimoniali degli imperatori bizantini. Cristo è posto al centro del cerchio circondato dagli otto arcangeli. La magnificenza della gloria celeste è ancor più esaltata dalla luce delle otto finestre poste alla base dell’emisfero.
Il posizionamento dell’immagine del Cristo Pantocratore in differenti ambienti non si riscontra in nessun’altra chiesa siciliana. È qui che si incarna con la massima potenza l’idea di una relazione speciale tra Dio e il monarca, tra il re e il Re dei re.
I mosaici, incredibilmente sofisticati, catturano espressioni, dettagli e movimenti con grazia e delicatezza straordinarie. Tema principale sono le storie del Vecchio Testamento: si possono vedere la creazione con la divisione dei continenti, la separazione tra acqua e terra, poi luna, cielo e stelle, i pesci, la creazione degli animali, la creazione di Adamo dall’alito divino, quindi il riposo e la creazione di Eva dalla costola di Adamo, l’Eden e il peccato originale. Più sotto l’arca di Noè e la torre di Babele. Ma altre scene richiamano il ruolo fondamentale di Palermo nelle crociate, il che suona ironico se si pensa che furono realizzati da artisti musulmani. Tra i motivi ritorna spesso quello della mandorla.
All’interno di Palazzo dei normanni si possono vedere anche la sala di Ruggero II, dove si trovano alcuni dei pochissimi mosaici dell’epoca a tema non religioso (belle immagini di pavoni persiani ed esotici leopardi), e la sala dell’ARS (l’Assemblea Regionale Siciliana, che dato lo statuto autonomo della Regione Sicilia è quasi un parlamento) decorata con le fatiche di Ercole.

Sala di Ruggero II

Sala dell’ARS
Alla base del marmoreo scalone d’onore di quello che un tempo fu il Palazzo Reale si può vedere anche, inscatolata nel vetro protettivo, una maestosa carrozza risalente al settecentesco Regno di Sicilia, famosa anche per aver “recitato” nel film “La carrozza d’oro”, coproduzione italo-francese del 1952, firmato Jean Renoir e interpretato da Anna Magnani (la carrozza venne restaurata proprio per il film).
Terminata la visita, ancora con gli occhi pieni di bellezza (avevo già visto la Cappella Palatina 11 anni fa ma questo non mi ha certo impedito di sorprendermi di nuovo), si ritorna verso Ballarò e verso l’ultimo appuntamento della mattinata: saliamo sulla torre di San Nicolò per gustarci il panorama della città dall’alto.

Il ficus macrophylla del Giardino Garibaldi in Piazza Marina a Palermo (pare che sia l’albero più grande d’Europa, con 21 metri di diametro del tronco e 50 metri di chioma)
Attaccata alla chiesa di San Nicolò sorge infatti la trecentesca torre civica. Fatta edificare dalla universitas palermitana per difendere le mura del “Cassaro”, non faceva parte delle strutture della chiesa, ma risultava slegata ed isolata. Torre d’eccellenza, forse la più alta di Palermo, perduto il significato di difesa a causa dell’ampliamento urbanistico della città, successivamente si volle ingentilire il suo austero aspetto applicando al secondo livello delle bifore con l’applicazione d’intarsi.

Torre di San Nicolò
Poco prima del 1518, sacrificando una bifora dell’ultimo piano, vi fu apposto un orologio che come riferiscono i registri del Senato palermitano costituiva uno dei tre orologi della città, insieme a quelli di Sant’Antonino Abate e di Santa Lucia al Borgo. Questi battevano la “castiddana” per annunciare agli artigiani di chiudere bottega e alla popolazione di non vagabondare più per le strade senza preventivo permesso di un magister civico, pena il pagamento di cinque onze se intercettati dalla ronda, perché a quell’ora venivano chiuse le porte della città. La “castiddana” (castellana) consisteva nel rintoccare cinquantadue colpi di martello alla campana alle due di notte, corrispondenti alle due ore dopo l’Avemaria, con la quale aveva inizio il nuovo giorno. Oggi questo orologio non è più visibile, essendo stato tolto durante i restauri del XX secolo, e nemmeno la guglia della torre, eliminata in seguito ai danneggiamenti inferti dal terremoto del 1726. Ma c’è ancora la campana della chiesa di San Nicolò, ancora Parrocchia del quartiere.
In cima alla torre si trova una statua, opera dello scultore Filippo Leto, che è stata realizzata la notte tra il 20 e 21 marzo 2014. Rappresenta una donna arrabbiata, con gli abiti strappati, offesa dalla sua città che si abbandona al degrado. La statua sarà tolta solo quando la città di Palermo comincerà a reagire.
Dalla terrazza è possibile ammirare i monumenti del centro storico di Palermo: Cupola della Chiesa del Carmine Maggiore e Mercato di Ballarò, cupola della Chiesa del Gesù, cupola della Chiesa di Santa Caterina D’Alessandria, cupola della Chiesa di San Giuseppe dei Teatini, Castello Utvegio e monte Pellegrino, cupola della Chiesa di Sant’Ignazio, Teatro Massimo, Cattedrale, Porta Nuova, Palazzo Reale e altro ancora.
È qui che salutiamo Francesca e salutiamo, in qualche modo, anche Palermo. Ci rimane ancora qualche ora qui prima di andare all’aeroporto, ma la spenderemo in occupazioni più… leggere: tanto per cominciare, per chi vuole, un aperitivo al Fresco, con i prodotti dei ragazzi del progetto “Cotti in fragranza”, e poi… pranzo libero. Io, con Simona e con il solito gruppetto di aficionados dell’Antica Focacceria di San Francesco, decidiamo di tornare lì per chiudere in bellezza con un’esperienza palermitana piuttosto forte, che qualcuno qui non ha ancora provato: il pane con la milza, di cui la focacceria è uno dei templi indiscussi. Si tratta in pratica della cosiddetta focaccia “maritata”, dove il caciocavallo e la ricotta si sposano con la milza bovina, in contrapposizione alla focaccia “schetta” (che è come dire zitella), farcita solo con caciocavallo e ricotta. Ok, lo ammetto, è davvero un’esperienza un po’ per palati forti ma almeno una volta nella vita va fatta e io la consiglio (non me ne vogliano vegetariani e vegani).
Eccoci qua, mi piace salutarvi così, con Simona in primo piano (sia pure purtroppo con mascherina) e noi dietro a strafogarci… noi siamo senza mascherina ma – lo giuro – l’abbiamo tolta solo per mangiare.
Si chiudono così quattro giorni davvero intensi, nonostante le restrizioni del periodo. Abbiamo scoperto, o avuto conferma, che questa città ha davvero mille volti: il titolo del nostro viaggio era azzeccatissimo. A me (ma penso anche a tutti noi) rimangono impressi soprattutto i volti di Peppino Impastato, di Felicia, di Giovanni e di Luisa, come anche i volti di tutte le persone che abbiamo conosciuto e che ogni giorno, con fatica ma anche con grande entusiasmo e grande coraggio, portano avanti dei progetti di solidarietà, di socialità, di condivisione, di incontro con l’altro e il “diverso” e perché no di turismo sostenibile. È specchiandosi in quei volti e in quegli occhi che Palermo può e deve guardare verso il futuro che merita. Sì, ok, sarà retorico ma concedetemelo… amuninni!
Grazie infinite a ViaggieMiraggi, a Radio Popolare, a Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato, alla cooperativa Terradamare, a Cotti in Fragranza, al CIAI – Centro Italiano Aiuti all’Infanzia, a Giocherenda, a Moltivolti.
Grazie a Simona, brava e premurosa come sempre, e grazie a tutte le compagne e tutti i compagni di viaggio con cui ho condiviso questi quattro giorni.