Dalle montagne “maledette” del Kelmend alle Bocche di Cattaro con Confluenze a sudest-Viaggi e Miraggi

3: Garibaldini e musicanti

Lunedì 29 agosto 2022

E così, di buon’ora, ci rimettiamo in marcia verso il Montenegro. Salutiamo Lepushë con le cime delle montagne avvolte dalla nebbia nell’aria fresca del mattino. Ci dirigiamo, lungo una spettacolare quanto tortuosa strada nuova, verso il valico di frontiera Grabon-Cijevna. Percorriamo la valle del fiume Cem dove, ancora agli inizi del ’900 quando Edith Durham passò di qui, ogni tanto si incontrava un han, cioè uno degli antichi caravanserragli dove si fermavano per la notte le carovane in viaggio nell’Impero Ottomano. Stiamo per scavalcare davvero le montagne maledette.
La strada è talmente nuova che pochi la conoscono, e così il posto di frontiera è praticamente deserto. Ci fermiamo e dietro di noi non c’è nessuno. I poliziotti albanesi, per quanto compassati, svolgono il controllo dei documenti in modo abbastanza sbrigativo. Ma i montenegrini, appena sentono Eugenio parlare in serbo con uno strano accento, e alla guida di un pullmino con targa albanese, si incuriosiscono. Lui spiega che vive a Belgrado da anni, che organizza viaggi per conto di un’agenzia italiana, di Padova, elenca le mete già toccate e le tappe che faremo in Montenegro… e loro fanno domande, forse anche un po’ per passare il tempo. Non deve essere facile – pensiamo noi – far passare la giornata nell’ufficio di una dogana così sonnacchiosa come questa. E infatti leggono e rileggono il nome di “Eughenio” (per loro si pronuncia così, è ovvio) sui vari documenti del noleggio, poi chiedono un’assicurazione speciale che serve per entrare in Montenegro su un’auto straniera, fotocopiano minuziosamente tutto, controllano uno per uno tutti i nostri documenti… e intanto passa una mezz’ora. Subito dopo la frontiera scendiamo a sgranchirci un po’ le gambe e a leggere un ultimo brano di Edith Durham; qui sventola un’altra bandiera con un’aquila bicipite. In quella del Montenegro nell’aquila è inscritto un leone passante, altro simbolo monarchico (della dinastia Petrović). L’aquila ha anche tra le due teste la corona della dinastia Petrović e tiene tra gli artigli uno scettro e un globo. È abbastanza curioso che la bandiera di una repubblica sia così piena di simboli monarchici, ma tant’è; scopriremo che i montenegrini tengono molto al loro glorioso passato di regno indipendente, per quanto sia durato abbastanza poco: dal 1860 (ma l’indipendenza fu riconosciuta a livello internazionale solo nel 1878) fino al 1918.

Poi si riparte: inizia la discesa verso Podgorica, la capitale del Montenegro. Il nome Podgorica significa “ai piedi della collina”, e si riferisce alla piccola collina (gorica) di circa 100 m di altitudine che domina la città.
La periferia di questa città di 150.000 abitanti è anonima come tante periferie: si riconosce qualche casermone del tipico stampo del realismo socialista, ma la maggior parte degli edifici sembrano ancora più recenti. Anche il centro, peraltro, non mostra grandi vestigia del passato: la città è stata bombardata per ben 70 volte durante la Seconda guerra mondiale, sia dai nazisti che dagli alleati. C’è chi la paragona a Hiroshima, per come è stata letteralmente rasa al suolo.
Noi abbiamo appuntamento con uno storico della locale università, Slavko Burzanović, che ci racconterà la storia dei militari italiani che, dopo l’8 settembre 1943, divennero partigiani in Montenegro. La lezione si tiene davanti a un caffè per noi, e a un cappuccino per lui, nel dehors di un bar del centro città.

Slavko Burzanović

Bisogna sapere, innanzitutto, che dopo l’occupazione della Jugoslavia da parte delle truppe nazifasciste il Montenegro, nel luglio 1941, era presidiato dagli italiani, e fu sotto la protezione italiana che i separatisti montenegrini, il 12 luglio, proclamarono il Regno indipendente del Montenegro. Del resto la regina d’Italia, consorte di Vittorio Emanuele III, era Elena, una principessa montenegrina figlia di Re Nicola, e quindi i legami tra i due paesi erano più che mai forti. Ma il giorno dopo i nuclei comunisti, che erano di tutt’altro parere, lanciarono attacchi su tutto il territorio, coinvolgendo oltre 30.000 volontari che in pochi giorni furono capaci di infliggere 200 o forse 300 perdite all’esercito italiano e di sottrarre agli italiani gran parte del territorio. L’armata italiana, basata in Albania, era comandata dal generale Pirzio Biroli e contava 100.000 uomini, che nel mese di agosto riuscirono a soffocare la rivolta. Il generale – racconta Slavko in un ottimo italiano – scrisse nel suo diario “Sembra che siamo in guerra con il Montenegro!”. Evidentemente non se lo aspettava, forse convinto che gli occupanti italiani sarebbero stati accolti a braccia aperte, o quanto meno che i montenegrini non avrebbero avuto il coraggio di ribellarsi alle truppe dell’Asse in un momento in cui queste controllavano mezza Europa e sembravano (almeno quelle tedesche) in grado di marciare verso Mosca.

Una volta che gli italiani ebbero ripreso il controllo dei nodi strategici e delle principali vie di comunicazione, ai partigiani montenegrini non rimase che rifugiarsi nei boschi e nelle zone montane più impervie e difficili da controllare. Seguirono brutte pagine di storia: repressione, almeno 15.000 persone internate nei campi di concentramento. Gli italiani, per mantenere saldo il controllo, fomentavano le divisioni tra i partigiani comunisti di Tito e i četnici, che volevano restaurare lo stato jugoslavo monarchico ma pensavano che non era ancora il momento e che, pur di mantenere il potere e di contrastare i comunisti, era meglio collaborare con gli occupanti. Fino al maggio 1942, vi fu quindi un’aspra lotta tra i partigiani comunisti da una parte e gli italiani con i četnici e altri collaborazionisti dall’altra. Ci sono molti posti intorno a Podgorica dove vennero catturati e fucilati, a gruppi di 30 o 50 persone, partigiani e membri delle loro famiglie.
I partigiani montenegrini, poi, provarono a unirsi ai partigiani serbi e a marciare verso Pljevlja, nel nordest del Montenegro. Fu un disastro, subirono molte perdite e molti dei superstiti passarono in Bosnia per unirsi alle brigate proletarie, embrione dell’Esercito Popolare Jugoslavo che alla fine della guerra sarebbe arrivato a 800.000 uomini, tra cui 14 battaglioni montenegrini.
Un punto di svolta per il rientro massiccio dei partigiani in Montenegro fu la capitolazione italiana, l’8 settembre del 1943. In quel momento erano presenti in Montenegro 4 grandi divisioni: Ferrara, Emilia, Venezia e Taurinense. Gli uomini della Ferrara e dell’Emilia si trovavano sulla costa, che era quella che ai tedeschi interessava prendere per prima, per impedire che potesse essere usata per uno sbarco degli Alleati o per l’evacuazione degli italiani. Non volevano arrendersi ai partigiani, non volevano arrendersi ai tedeschi e nemmeno ai četnici, loro ex alleati; ma, non avendo più contatti con Roma, si trovarono completamente allo sbando. Queste due divisioni vennero quasi completamente distrutte dai nazisti; sopravvissero in pratica solo quelli che si unirono ai tedeschi. La Taurinense, in quel clima di confusione, si divise: alcuni si consegnarono ai tedeschi, altri cercarono di rimanere autonomi sulle montagne (erano pur sempre alpini), altri ancora si unirono ai četnici o ai partigiani seguendo i loro comandanti.
Quasi tutta la divisione Venezia, guidata dal generale Oxilia, rimase invece unita e strinse un rapporto organico con i partigiani comunisti. Così, il 2 dicembre del 1943, nacque una divisione partigiana di 20.000 uomini che sarebbe poi stata chiamata “Garibaldi” e che sarebbe entrata anche a Belgrado nell’ottobre 1944 per liberare la città dall’occupazione nazista. Formalmente restavano militari italiani, ma di fatto facevano parte delle brigate partigiane. Si pensa che il nome “Garibaldi” fu scelto da Peko Dapčević, un comandante partigiano montenegrino con il quale Oxilia siglò l’accordo. Oxilia non agì di sua iniziativa, ma ascoltò l’umore degli ufficiali, un fatto peculiare rispetto alla rigidità gerarchica del Regio Esercito. E tutti o quasi gli ufficiali si espressero contro la Germania nazista. Per quanto riguarda il nome, abbiamo scoperto che il legame storico e ideale con l’eroe dei due mondi, da queste parti, nasce ancora prima, nella seconda metà dell’800 con i “veri” garibaldini, alcuni dei quali vennero nei Balcani a tentare di liberare anche questi paesi dall’oppressione.

Nel marzo del 1945 finì l’esperienza della “Garibaldi” in Jugoslavia, con il rimpatrio di quasi tutti quelli che ne erano stati protagonisti. Ma quegli eventi cambiarono il modo di vedere gli italiani da parte dei montenegrini, facendo capire che non c’erano solo gli occupanti fascisti, ma anche chi aveva sempre combattuto il fascismo e chi, pur costretto a servire nell’esercito fascista, si era schierato dalla parte giusta nel momento della verità. A Pljevlja, 40 anni dopo la formazione della brigata Garibaldi, fu inaugurato un monumento commemorativo alla presenza di Sandro Pertini. Dopo la dissoluzione della Jugoslavia, in molte parti del paese questi monumenti sono stati distrutti ed è cambiato anche il modo di vedere la lotta partigiana, in senso revisionista. Anche Podgorica, che per tutto il periodo della Jugoslavia socialista è stata Titograd, ha ripreso il vecchio nome; ma qualche anno fa, mentre in tutti i paesi della ex Jugoslavia si cercava di prendere le distanze dal comunismo e di “cancellare” Tito, qui gli è stato dedicato un nuovo monumento.
È proprio questo monumento che Slavko ci porta poi a vedere, come un naturale completamento delle storie che con grande passione ci ha raccontato. Questo e un altro monumento, che ricorda tutti i partigiani con una grande lapide nera sulla quale sono scritte due sole parole in cirillico: Partizanu borcu, combattente partigiano.

Mentre passeggiamo, Slavko ci chiede se qualcuno di noi ha parenti in qualche paese della ex Jugoslavia, e Rosa, che ha una madre montenegrina, gli racconta delle ricerche che suo zio, una volta andato in pensione, ha fatto sulla figura di un parente illustre. Il bisnonno di Rosa si chiamava Dionizije De Sarno San Djordjio (o, all’italiana, Dionisio De Sarno San Giorgio – era originario di Napoli) ed era un grande musicista degli inizi del ‘900, che ovviamente Slavko conosce benissimo. E non è tutto: a Perasto (Perast), dove saremo dopodomani, c’è ancora la casa di famiglia, che dopo la guerra fu sequestrata dal governo di Tito e trasformata in una fabbrica di tute per operai (c’è qualcosa di più simbolico?). Ora quella casa, ristrutturata e ampliata con nuove costruzioni, è diventato un hotel di lusso, e scopriamo che Slavko ci ha investito una piccola somma, quindi in pratica… si è comprato un pezzettino della vecchia casa di famiglia di Rosa! Se non è una coincidenza incredibile questa…


En passant Slavko, che è jugonostalgico, con anche una certa ammirazione per Tito, e non se ne vergogna, butta lì anche che adesso in Montenegro governano i četnici. Non c’è tempo per approfondire, ma forse si riferisce al fatto che nell’attuale governo montenegrino ci sono un paio di partiti filoserbi. Dovremmo dire ex governo, in realtà, perché è caduto proprio pochi giorni fa, dopo una vita molto breve. Si trattava di un governo di minoranza, con l’appoggio esterno del partito di Milo Djukanović, colui che ha segnato gli ultimi 30 anni di politica montenegrina e che però aveva inaspettatamente perso le elezioni del 2020. Il suo partito, il DPS (Partito Democratico dei Socialisti), è erede più o meno diretto della Lega dei Comunisti del Montenegro. Ora il paese va verso elezioni anticipate, che si terranno nei prossimi mesi, e quindi anche qui l’incertezza regna sovrana.
Per noi è arrivato il momento di salutare Slavko e Podgorica, e ripartire verso Kolašin, che dovremmo raggiungere più o meno all’ora di pranzo.
Mentre viaggiamo, però, si accende improvvisamente una spia gialla, di cui all’inizio facciamo fatica a identificare il significato. Si continua, con prudenza, finché la spia diventa rossa… allora Eugenio preferisce fermarsi da un meccanico per capire cosa sta succedendo. Purtroppo, il sospetto che avevamo diventa realtà: è la temperatura che sta salendo perché è sceso di molto il livello dell’acqua di raffreddamento. Si scopre che la causa è il tappo del radiatore, che sembra non sia più a tenuta, quindi l’acqua evapora e… noi stavamo rischiando di fondere il motore del pullmino. E ora che si fa? Per fortuna il meccanico ci può procurare un tappo nuovo, ma ci vuole almeno un giorno, e quindi nel frattempo dovremo andare avanti a rabbocchi ogni volta che il livello scende.
Così abbiamo perso un bel po’ di tempo, dobbiamo dirigerci velocemente verso il posto che abbiamo prenotato per il pranzo, che è un agriturismo molto bello ma altrettanto difficile da trovare: la fattoria di Milijanka e Miško Puletić. Ne vale davvero la pena, però, perché quello che ci offrono è tanto e tutto di qualità, soprattutto il formaggio e il prosciutto crudo affumicato, che è una specialità montenegrina. Ad accoglierci c’è anche un tacchino di dimensioni davvero eccezionali e con un portamento… da pavone!

Dopo il lungo pranzo, per Giorgia e Carlo c’è anche la possibilità di un breve ma emozionante giro a cavallo, mentre io ed Eugenio ci gustiamo i racconti del padrone di casa: sembra che Dragoljub “Draža” Mihailović, il capo dei četnici, si nascose proprio su queste montagne alla fine della guerra per sfuggire ai titini, prima di essere catturato vicino al confine austriaco e fucilato a Belgrado il 17 luglio 1946.

Dopo di che bisogna ripartire, perché anche oggi il tempo si sta purtroppo mettendo al brutto e conviene raggiungere al più presto il posto dove dormiremo, che è un ecovillaggio fatto di katuni, le tipiche case in legno dei pastori montenegrini, a 950 m di quota.
Arriviamo che piove a dirotto, perciò non possiamo fare altro che rintanarci nei nostri katuni sperando in un successivo miglioramento, del quale però non ci sono segni. Il programma del pomeriggio, sul quale siamo già in notevole ritardo a causa del problema col pullmino, vorrebbe che noi si facesse il giro del Biogradsko Jezero, un bellissimo lago glaciale circondato da foresta vergine, parte del Parco Nazionale di Biogradska Gora. Doveva essere uno degli higlights del viaggio… ma purtroppo continua a piovere, al lago non si va.

La cena di questa sera sarà accompagnata da un gruppo di musicisti. Eugenio ha provato a farli venire un po’ prima per abbreviare l’attesa ma anche loro più di tanto non possono anticipare. La loro esibizione, però, ci farà dimenticare i piccoli contrattempi della giornata e il fastidio per non essere riusciti a vedere il lago.
Tutto inizia con una bella presentazione, che ci vuole: suoneranno e canteranno per noi Davor Sedlarević, con un collega musicista che lo supporta, e tre ragazze che appartengono al gruppo vocale Djude. Sono tutti di Kolašin. Lui non è solo un musicista (suona fisarmonica e pianoforte), è anche un etnomusicologo, saggista e ricercatore, oltre che il mentore di questo gruppo vocale che si è formato qualche anno fa per tenere in vita un particolare stile di canto locale a cappella, una forma di eterofonia, che si stava perdendo a causa dell’emigrazione e della mancanza di scuole di formazione musicale in questo territorio. Si tratta infatti di un sapere che si è sempre trasmesso per via orale di generazione in generazione, ma che ormai è patrimonio di poche persone. L’eterofonia è una particolare forma di polifonia nella quale più musicisti eseguono contemporaneamente la stessa melodia, uno di loro rispettandone la forma originale e gli altri introducendovi piccole variazioni e ornamentazioni, codificate o improvvisate. Per il loro lavoro, le ragazze hanno vinto un importante premio europeo. E, per quanto possa sembrare una incredibile coincidenza, Carlo ricorda di averle ascoltate in un programma della napoletana Radio Shamal.

Questa sera le ragazze sono vestite in modo tradizionale ma solo… a metà, nel senso che solo le loro camicette fanno parte dei costumi tradizionali di questa zona del Montenegro; sono lavorate a mano ed erano usate per i giorni di festa. Ancora oggi alcune donne anziane usano farsi seppellire con questi abiti tradizionali.
In questa zona interna delle montagne del Montenegro – ci racconta Davor, con la traduzione di Eugenio – c’è un sistema di scale musicali che è diverso da quello dell’Europa occidentale. Qui gli strumenti musicali, fino a pochi anni fa, erano molto rari, e quindi si ballava al suono delle sole voci, o di uno o due strumenti: fisarmonica e flauto. La differenza fondamentale è che in Europa occidentale si parte con una nota e si finisce con la stessa nota, mentre qui, nel sistema arcaico locale, si finisce con la nota successiva. Si usa anche, con la fisarmonica, suonare due note insieme (cioè due tasti contemporaneamente), ottenendo un suono che al nostro orecchio “occidentale” risulta dissonante e qui invece no.
Ma forse è meglio farvi ascoltare (e vedere) qualcosa. Qui ci sono due esempi di canto a cappella delle ragazze, con cui hanno iniziato l’esibizione: nel primo si capisce abbastanza bene che cos’è l’eterofonia.

Poi Davor ci ha fatto ascoltare un esempio di improvvisazione musicale con un semplicissimo flauto pastorale.


La musica montenegrina ha risentito, inevitabilmente, di una certa influenza turca: la parte interna del Montenegro è stata sotto il controllo dell’Impero Ottomano per più di tre secoli, anche se ha sempre goduto di una certa, limitata, autonomia. Furono proprio i turchi a chiamare questo paese Karadağ (che significa appunto monte nero in turco): per loro era una zona montuosa, piena di foreste e difficile da sottomettere, perché abitata da un fiero popolo di valorosi guerrieri. Ai montenegrini il nome piacque al punto da farlo loro (Crna Gora), ed è arrivato fino a noi. Però curiosamente – racconta Davor – qui le sevdalinke, le malinconiche canzoni d’amore con una fortissima influenza turca che sono un genere tipico della Bosnia-Erzegovina (anch’essa con una lunga storia di dominio ottomano), sono arrivate solo negli anni ’60-’70 del ’900, nel periodo della Jugoslavia socialista in cui la musica jugoslava era una, sia pure con le sue specificità locali, e doveva unire tutto il paese. Ecco qui un bell’esempio di sevdalinka (neanche tanto maliconica, in questo caso) interpretato da Davor e da una delle ragazze: si intitola Safete Sajo Sarajlijo ed è la canzone d’amore di un ragazzo sarajevese (Safet è uno dei nomi bosniaci più diffusi, di chiara origine turca).

Nel frattempo si cena; concediamo una meritata pausa ai musicisti, ma dopo cena… si balla. Prima le ragazze provano a insegnare alle nostre ragazze un ballo tipico locale, come potete vedere in questo video…


E dopo tutti (o quasi) ci lanciamo nelle danze, compreso chi come me più che ballare si agita in maniera totalmente incongrua… esiste una testimonianza filmata, ma forse è meglio se ve la risparmio.
Voglio farvi vedere invece un altro paio di pezzi, con i quali abbiamo allargato ancora un po’ l’orizzonte rispetto alla musica tradizionale montenegrina. Questo è un brano tradizionale dei rom della ex Jugoslavia, che parla di una ragazzina zingara dai capelli neri e dagli occhi infuocati. Baciando le sue labbra, si dimentica ogni dolore. Il titolo è Ciganka sam mala (sono una piccola zingara).


E per finire, una canzone che davvero unisce tutti i Balcani: l’origine si perde in un tempo molto lontano, ma è probabilmente turca, con il titolo Üsküdar’a Gider İken (andando a Üsküdar). Ne esistono innumerevoli versioni, tra cui una serba, una bosniaca, una albanese, una bulgara, una rumena, una greca e altre a non finire, che arrivano al Medio Oriente e perfino al sudest asiatico. Questa qui è quella serba, che si intitola Ruse kose curo imaš e parla di una ragazza dai capelli biondi. La musica unisce i popoli che la politica divide.

È stata una bellissima serata, per cui dobbiamo ringraziare soprattutto Davor e le ragazze del gruppo Djude: il loro lavoro di ricerca musicale è prezioso e ci ha fatto conoscere un altro pezzo di quell’inestimabile patrimonio che è la musica dei Balcani.


Possiamo andare a dormire, domani si riparte alla scoperta del Montenegro.

(TO BE CONTINUED…)