Viaggio nel Delta del Grande Fiume, patrimonio dell’umanità e riserva della biosfera, un ambiente al tempo stesso meraviglioso e inospitale, dove tutti sono stranieri e nessuno è straniero, dove la biodiversità è enorme per tutte le specie, compresa quella umana.
Dove finisce il Danubio? In questo incessante finire non c’è una fine, c’è solo un verbo all’infinito presente. I rami del fiume se ne vanno ognuno per conto proprio, si emancipano dall’imperiosa unità-identità, muoiono quando gli pare, uno un po’ prima e uno un po’ dopo, come il cuore, le unghie o i capelli che il certificato di morte scioglie dal vincolo di reciproca fedeltà. Il filosofo avrebbe difficoltà, in questo intrico, a puntare il dito per indicare il Danubio, la sua precisa ostensione diverrebbe un incerto gesto circolare, vagamente ecumenico, perché il Danubio è dappertutto e anche la sua fine è dovunque in ognuno dei 4300 chilometri quadrati del Delta.
(C. Magris – Danubio)
Dove finisce il Danubio? Se lo chiedeva anche Claudio Magris una trentina d’anni fa. Ho iniziato con una sua citazione non per caso, ma perché il suo libro è stato per me la guida fondamentale nella marcia di avvicinamento a questo viaggio. Non potevo partire senza averlo metabolizzato. Lo citerò spesso, perché non avrebbe senso cercare altre parole quando le sue esprimono già in maniera così piena e completa i pensieri e le sensazioni che questo viaggio può far nascere (e soprattutto lo fanno con una proprietà e uno stile che non potrei neanche sognarmi di avvicinare, questo va da sé).
Ma cercherò anche, come posso, di metterci qualcosa di mio, in questo racconto. Anche perché in questi trent’anni qualcosina è pur cambiato, da queste parti; e perché il viaggio del grande scrittore e germanista aveva pur sempre un limite: non era un viaggio di Radio Popolare.
Eh sì, questo è un viaggio di Radio Popolare, architettato da Viaggiare i Balcani, nella persona di Eugenio Berra che ne è anche l’insostituibile guida, con il contributo organizzativo di Viaggi e Miraggi, e con il patrocinio di Slow Food. La compagine, insomma, è la stessa del viaggio sul Danubio serbo dell’anno scorso, sul leggendario barcone di Emir Kusturica, quello del film Underground. Il che vuol dire che anche le componenti del viaggio saranno ancora quelle: natura, storia, cultura e… non ultimo il buon mangiare (e il buon bere, siamo sempre nei Balcani).
A proposito del viaggio dell’anno scorso, se qualcuno se lo fosse perso o volesse rinfrescarsi la memoria, dato che seguendo il corso del Danubio questo viaggio è la naturale e ideale continuazione di quello, il resoconto si trova qui:
Il battello della città dei matti – Parte Prima
Fatta questa doverosa premessa, non perdiamo altro tempo e iniziamo il racconto.
26/5/2017 – Primo giorno: Nel quale parte il nuovo viaggio danubiano
Anche quest’anno solcheremo il Danubio. Ma non sarà sicuramente lo stesso fiume. Non solo perché, come diceva Eraclito, non ci si può mai bagnare due volte nello stesso fiume, ma anche perché il tratto di fiume che solcheremo sarà diverso, sarà quello più a valle, quello che scorre in Romania fino a sfociare nel Mar Nero, al confine con l’Ucraina.
O forse sì invece, forse sarà lo stesso fiume. Magris dice che forse Eraclito ha torto, ci si bagna sempre nello stesso fiume, nel medesimo infinito presente del suo fluire, e ogni volta l’acqua è più tersa e profonda. Scendere la china verso il Mar Nero, accettare la corrente, giocare con i suoi gorghi e le sue increspature, con le pieghe ch’essa disegna sull’acqua e sul viso. Sarà proprio questo che faremo, e così lo potremo sperimentare direttamente.
Per adesso ci ritroviamo alla Malpensa, pronti a volare verso Bucarest. Il gruppo è composto in totale da 14 persone, tra cui 4 reduci del Danubio serbo, me compreso. Altri reduci erano nel primo gruppo della radio, guidato da Claudio Agostoni, che ci ha preceduto e che incroceremo all’aeroporto di Bucarest, senza però poterli salutare se non da lontano. Loro partono e noi arriviamo.
A guidare il nostro gruppo, per la radio, c’è Cecilia Di Lieto, un’altra delle voci storiche che ho finalmente l’opportunità di conoscere. Cecilia è senz’altro tra le persone più indicate per questo viaggio, dato che ora fa un programma sugli animali, che il Delta ospita e nutre a profusione, e in passato si è occupata di cultura (tuttora se ne occupa, in realtà), cultura della quale il Delta è ricco quanto e forse più che di natura. Nel senso che, avremo modo di scoprirlo, è raro trovare in un’area abitata da solo 15.000 persone una tale varietà culturale, legata alla commistione di popoli, lingue e religioni differenti che da secoli caratterizza il Delta.
E per Viaggi e Miraggi c’è Franca, da Padova, che si occupa di amministrazione ma ogni tanto accompagna anche i viaggi. Ovviamente lei è qui per lavoro, per dare un importante supporto ai viaggiatori, ma sembra anche lei curiosa di scoprire questo pezzo di Europa così poco conosciuto. Tant’è vero che è venuta col marito al seguito: dice che si vedono così poco, normalmente, che un viaggetto insieme ogni tanto ci sta bene.
Le prime chiacchiere con Cecilia offrono l’occasione per soddisfare la curiosità di noi ascoltatori sull’origine del titolo del suo programma sul mondo animale: “Considera l’armadillo”. Scopriamo che tutto nasce da “Considera l’aragosta”, un saggio di David Foster Wallace che invitava, sul piano etico, a considerare il punto di vista della povera aragosta bollita viva. Usarlo come titolo così tal quale però sarebbe stato banale, bisognava trovare una variante divertente. In quel periodo furoreggiava la prima opera a fumetti di Zerocalcare, “La profezia dell’armadillo”, e da lì venne l’idea, che funzionava bene anche perché l’armadillo è un animale piuttosto insolito, per cui il titolo suonava come un invito a considerare tutti gli animali, anche i più strani…
Dopo due ore e mezza di volo atterriamo a Bucarest verso le 16 ora locale (qui siamo a + 1 rispetto all’Italia). Il cielo è nuvoloso e fa freschino. Eugenio è lì ad aspettarci; ci dilunghiamo un po’ tra saluti e convenevoli vari: per noi reduci della Serbia ci sono notizie sulle varie persone che abbiamo conosciuto nel corso di quel viaggio e che lui frequenta, vivendo a Belgrado. Eugenio è milanese ma abita a Belgrado da tre anni, e prima ha vissuto a Sarajevo, quindi la realtà dei Balcani la vive da dentro, oltre a nutrire per i Balcani una grande passione. Lo conosco abbastanza bene ormai, e so che è davvero una garanzia, sotto tutti i punti di vista.
E infatti, per non smentirsi, appena il nostro pullmino parte in direzione Bucarest (l’aeroporto non è molto distante dal centro), Eugenio ci consegna l’edizione romena della sua ormai mitica “dispensa”, che già avevamo avuto l’anno scorso, una raccolta di materiali utili da leggere e consultare durante il viaggio, con tutte le informazioni di carattere storico, sociologico e antropologico che ci serviranno e un sacco di spunti letterari per approfondire. E perfino i menù dei pranzi e delle cene “slow” che faremo…
Nel frattempo, abbiamo conosciuto Florin, il nostro autista, che ci accompagnerà in tutti i tratti in pullmino. Scopriamo subito che capisce anche un po’ di italiano; le sue frasi sono per ora molto basiche, ma compensa con grandi sorrisi. Lui viene proprio dalla zona del Delta, quindi le strade di Bucarest non sono così familiari per lui, ragion per cui preferisce aiutarsi con un navigatore. È anche il nostro primo contatto con la lingua romena parlata. Non capiamo niente, ovvio, ma le sonorità hanno chiaramente qualcosa di neolatino, anche se scopriremo poi che il romeno ha anche parecchie componenti slave. Comunque, è divertente sentire un navigatore che parla così, in questa lingua nuova per noi, con una profonda voce maschile.
Per le prime due notti ci sistemiamo all’hotel Siqua, vicino al teatro dell’Opera, in pieno centro storico. C’è il tempo per una doccia e un po’ di riposo, poi bisogna uscire per la cena, che è la prima cena Slow Food.
Tutto è apparecchiato per noi al ristorante “The London Street Atelier”, gestito da Rachel Sargent, una chef inglese membro del Convivium Slow Food Tarnava Mare. Il menù prevede:
Insalata di melanzane, Sarma (involtini di carne e riso, come da tradizione ottomana) in foglia di vite, zucchine impanate con panna acida di bufala e crema di noci.
Torta salata di verza, stufato di porro, funghi e olive servito con polenta, salsicce affumicate.
Insalata stagionale.
Pane con lievito naturale e sale all’aglio orsino, pane con noci e polenta.
Mele cotte al forno con frutta secca e sorbetto di fiore di sambuco.
Il tutto ci viene illustrato personalmente da Rachel, che vive qui da 20 anni. Si è innamorata della Romania e della cucina romena, dice che soprattutto ora, dopo la Brexit, probabilmente rimarrà a lungo… e le piace coinvolgere anche una delle cuoche romene, che ci spiega con dovizia di particolari la ricetta del rinfrescante succo di sambuco che troviamo in tavola, con Rachel che traduce in inglese ed Eugenio in italiano.
Stasera è previsto anche il primo dei tanti incontri a carattere socio-antropologico-culturale che, lo sappiamo, il nostro Eugenio non ci farà mancare. Bogdan e Monica, due antropologi dell’Università di Bucarest, sono a cena con noi, il che ci dà l’opportunità di chiacchierare prima un po’ in maniera informale, dato che entrambi parlano un ottimo italiano, soprattutto Bogdan che è anche un po’ più ciarliero, o forse solo un po’ più a suo agio a parlare in pubblico. Tra le tante curiosità ci colpisce il modo di dire romeno “Esplode la polenta” (non so come suoni in lingua, perdonatemi) che equivale, ci pare di capire, più o meno al nostro “C’è qualcosa che bolle in pentola”. E da questo si può già dedurre che la polenta è un cibo molto diffuso qui e che sarà presente in molti dei nostri menù. Bogdan dice che anche i romeni sono un po’ “polentoni”…
Poi, dopo le chiacchiere in libertà, arriva il momento delle presentazioni serie, con tanto di “Slide” (che saranno un po’ una costante di questo viaggio…).
Bogdan e Monica sono due antropologi “alimentari” e quindi è (anche) di cibo che si parla, inevitabilmente.
Bogdan, che lavora come ricercatore al museo del Contadino Romeno, ci racconta di come l’economia locale del Delta si è evoluta negli anni post-socialismo in modo che… il pesce è diventato più caro del pollo!
Per noi può far sorridere questo titolo ma dobbiamo pensare che qui il caviale era considerato un cibo povero! Lo storione è il re dei pesci del Delta ed è considerato, qui, come il maiale nella bassa padana: di lui non si butta via niente. Ed era, quando la Romania prese possesso del Delta del Danubio nel 1878, estremamente sovrasfruttato.
Durante il periodo socialista la pesca veniva organizzata – in un’economia pianificata – in “brigate” assegnate a una sola fabbrica (piscicola) che copriva l’intero distretto lavorativo del Delta, dai pescatori ai preparatori del pesce e del caviale (spesso le donne). Durante l’inverno, i pescatori lavoravano sulla preparazione delle attrezzature, mentre in primavera pulivano i canali per garantire la riproduzione dei pesci.
Dopo il socialismo, viene costituita la Riserva della Biosfera, con conseguente de-industrializzazione della pesca e interdizione della pesca allo storione per un periodo di dieci anni. La de-industrializzazione della pesca, però, porta anche ad un abbandono delle pratiche di cura del territorio: pulizia dei canali secondari, taglio dei canneti etc.
Negli anni recenti le istituzioni, con le loro politiche, hanno dovuto affrontare il problema di come gestire l’evoluzione in senso turistico del territorio del Delta. Cosa preservare e come? Qualsiasi uso umano è un’intrusione?
È emersa la consueta dicotomia tra turismo di massa e turismo “domestico”, “slow” e sostenibile. Anche il ruolo del pescatore è cambiato, al punto tale che molti pescatori si sono sentiti come degli animali esotici messi in mostra in uno zoo.
Monica ci parla del patrimonio immateriale gastronomico costruito intorno ad una risorsa naturale, con una relazione di interdipendenza tra gli abitanti e l’ambiente, fondata su un equilibrio molto fragile.
Negli anni si è vista la sparizione della confezione domestica (femminile) delle reti da pesca, delle tecniche tradizionali di isolamento delle barche, della minestra di storione (storceag).
Dopo secoli di esistenza centrata sull’amministrazione della risorsa piscicola e sui saperi intorno al pesce, adesso questa risorsa perde parzialmente la sua rilevanza patrimoniale. Visto che il turismo sostituisce la pesca come strategia di sussistenza familiare, il turismo diventa essenziale e le espressioni patrimoniali immateriali rispondono anche alle richieste dell’ambito turistico.
Vi è una diversità delle zone e delle popolazioni nel Delta: storione verso il mare, carpa/luccio/siluro nel Delta umido profondo, ma anche risorse agricole nella parte drenata (greggi di pecore dei pastori transilvani – formaggio).
La gerarchia del pesce e del cibo non è sempre lineare: Il pesce diventa un cibo nobile, per le feste e per i turisti. Prima, invece, la carne era vista come cibo domenicale per le famiglie di pescatori (pollo arrosto, pollo e risotto, maiale e fagioli) e il pesce come cibo quotidiano.
Le parti secondarie del pesce sono più apprezzate (le teste e le code più importanti, per la minestra, che i filetti).
Scopriamo alcuni piatti tradizionali che mangeremo spesso, come lo sgombro affumicato, la Malasolca (pesce con patate e aglio), la carpa al forno/allo spiedo (“protap”) con patate, pomodori, peperoncini interi, il minestrone di pesce (tre tipi di pesce, cipolla e pomodori). E poi i cardi di stagno, che in Italia si chiamano castagne d’acqua e che sono davvero tipici qui: freschi o bolliti con sale o trasformati in farina. Non dimentichiamo che il cardo, quello vero, è il fiore simbolo della Romania.
Vi sono poi alcuni animali tabù, che non si mangiano normalmente, contrariamente a quelle che sono le nostre abitudini: rane, granchio, lumache, cozze.
Insomma, un bell’antipasto di quella che sarà una delle parti fondamentali del nostro viaggio, la scoperta dei sapori del Delta.
Dopo cena Eugenio propone una birra in uno dei suoi locali “indie”, ai quali ormai ci ha abituato. Il gruppo perde qualche pezzo, ma i più resistenti ci seguono al J’ai Bistrot, un posto veramente indie, che nasce dal recupero di un vecchio giardino sottratto agli immobiliaristi.
L’ingresso è assolutamente anonimo, dopo di che si passa per uno stretto corridoio con le pareti punteggiate di murales e si sbuca, appunto, in un delizioso giardino. Ci sediamo lì, all’aperto, sfidando l’aria fresca della sera.
Con Eugenio viene automatico, ora che abbiamo l’opportunità di chiacchierare con un po’ più di calma, parlare di Belgrado. Gli chiedo le ultime notizie sul progetto “Belgrado sull’acqua”, un faraonico piano di sviluppo del quartiere di Savamala che cambierà il volto della città nei prossimi anni, senza tenere in alcuna considerazione l’opinione degli abitanti, che in gran parte hanno mostrato di non condividere quel modello di sviluppo. Non mi dilungo qui, anche perché qualcuno di voi conoscerà già bene la storia. Per gli altri, comunque, c’è pronto un bel riassunto:
E in quest’altro articolo proprio Eugenio ci racconta del movimento “Ne da(vi)mo Beograd”, ovvero “Non affon(diamo) Belgrado”, che tenta, con poche speranze purtroppo, di opporsi al progetto:
Anche a livello più generale, Eugenio mi conferma l’idea che mi ero fatto seguendo da lontano, e cioè che gli spazi di vera democrazia in Serbia si stanno riducendo sempre di più, soprattutto dopo le ultime elezioni con le quali Aleksandar Vučić è riuscito ad accentrare di fatto su di sé e sul suo partito quasi tutti i poteri, dopo una campagna elettorale all’insegna di una clamorosa sproporzione di forze e di visibilità.
Ma per passare dalle tristezze ad una nota più divertente, Eugenio mi racconta un episodio che riguarda Milan, il ragazzo che disegna le barche, un altro dei protagonisti del nostro viaggio sul Danubio serbo dell’anno scorso. Forse qualcuno ricorderà che Milan, durante uno scambio di idee calcistico-antropologico che avevamo avuto io e lui durante una serata alcolica, si era segnalato per delle posizioni piuttosto apertamente nazionaliste. Ebbene, sembra che ci sia ricaduto. Eugenio lo ha fatto incontrare con un suo amico giornalista, anche stavolta davanti a un bicchiere di rakija, inevitabile dato che l’argomento dell’intervista erano le kafane, le taverne belgradesi. E anche stavolta, pur solo con una mezza frase, lui ha fatto capire qualcosa, perché parlando di Šešelj e di appartenenze etniche ha chiuso subito il discorso con un “Non chiedermi come la penso, crederesti che io sia un nazionalista”. Fatto sta che anche stavolta, come era successo per il mio diario di viaggio dell’anno passato, l’articolo è stato pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso, e così il povero Milan ha già due segnalazioni in tal senso. Commento, ridendo, che allora c’è poco da fare, evidentemente dopo un tot di bicchieri il Milošević che è in lui prende il sopravvento…
Il tempo sospeso delle kafane belgradesi
E così, parlando di kafane belgradesi in un bar di Bucarest, può finire la nostra prima serata romena.
(Continua…)
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